Nell’ambito dei seminari del Dottorato di Ricerca Impresa, Stato e mercato, organizzati dal Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università della Calabria, si è tenuto il 7 aprile 2008 presso l’Aula Caldora dell’UNICAL il Convegno La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà religiosa nelle società multicultrali, in cui sono state presentate relazioni e interventi di grande interesse riguardo alla convivenza, non facile, tra due tipi di libertà che si contendono da sempre lo spazio culturale e politico.
Gli argomenti hanno abbracciato molte questioni: alcune relazioni hanno ricostruito l’iter storico e giuridico di problemi come l’esposizione di simboli religiosi (e più in generale identitari) nei luoghi pubblici, o lo sviluppo della censura e della tutela sia costituzionale che penale dell’espressione religiosa e della libertà di critica; altre invece sono entrate nel merito di questioni come la satira, la libertà di insegnamento, la ricerca scientifica e il rapporto tra sicurezza e diritti.
Una prima domanda può essere questa: esistono più tipi di libertà, o piuttosto si operano ripartizioni convenzionali? La risposta, alla luce della relazione Jus iocandi e libertà religiosa di Nicola Colaianni, sembra vertere decisamente sulla seconda ipotesi, essendo l’interesse delle parti un punto di rottura tra satira religiosa e libertà di critica: il rispetto dell’altrui credo si concilia con la libertà di critica sul filo delle parole ben ponderate, che non scadano nell’insulto; ma questo filo è talmente sottile che spesso si spezza o viene spezzato, come è evidente dalla storia europea degli ultimi secoli con la condanna del “diritto al gioco” (e infatti il famoso detto popolare scherza con i fanti, ma lascia stare i santi esprime sia il rispetto per il sacro, sia una sorta di ammonimento).
In Occidente è solo da poco tempo che si permette lo jus iocandi, dopo una faticosa evoluzione dei costumi e del pensiero, per cui nessuno viene più arrestato o mandato al rogo se osa prendere in giro figure sacre o dogmi; la questione è però resa nuovamente spinosa dall’arrivo nella cultura europea di altre religioni che sono ancora estremamente sensibili alla critica giocosa, identificandola tout court con l’offesa e l’insulto sacrilego. Il noto caso delle vignette su Maometto pubblicate da alcuni giornali nordeuropei rende necessario capire cosa sia la satira, che non può essere ridotta a mera espressione artistica come già denunciava Pasolini nei suoi Scritti corsari (“o fai poesia o vai in prigione”); il gioco, il riso, ottenuti anche attraverso la caricatura, non sono soltanto il mezzo della satira attraverso cui veicolare i suoi messaggi, ma anche il fine. Non è e non deve essere un insulto, proponendo il falso per danneggiare il suo soggetto, né altrettanto è o deve essere una affermazione di verità, che richiede prove, controllo. Eppure le continue proteste, sia interne alla cultura europea sia provenienti dall’esterno, contro la leggerezza e l’ironia della satira ha portato a molti scontri e alimentato intolleranze che richiedono a gran voce una tutela penale, rischiando di sfociare in nuove forme di censura, se non di razzismo; è chiaro che esista concettualmente un ordine pubblico ideale, per cui non si possa lasciare che sotto la libertà di espressione si coltivi un inaccettabile diritto all’offesa, ma non è nemmeno possibile inserire una nuova punizione ogni qualvolta un cittadino o un gruppo si ritiene insultato e aggredito, cosa che finirebbe con l’imbalsamare la libertà d’espressione ed esporla in una teca per essere ammirata e, al contempo, disattesa.
Un altro caso recente, quello della mostra bolognese intitolata La Madonna piange sperma, permette di vedere come l’ordinamento penale abbia cambiato visione del problema: con la modifica del codice penale non esiste più la diffamazione di gruppo, mentre la diffamazione aggravata colpisce i singoli individui, per cui si punisce l’offesa alle singole persone che leda indirettamente la confessione religiosa; una satira ritenuta offensiva che non sia però “individuale”, non può essere punita, quindi nel caso specifico nessun individuo è stato offeso nel titolo della mostra, non potendo neanche considerarsi la Madonna un individuo e nemmeno una divinità, stando agli orientamenti ufficiali della Chiesa.
Dalla relazione di Colaianni non emerge alcuna necessità di ampliare il diritto penale alla tutela sulla satira o contro di essa, cioè di agire idealisticamente per tutele generali che salvaguardino, cristallizzandolo, il confronto tra sentimenti e critiche; semmai risulta ragionevole selezionare realisticamente alcuni parametri per il giudizio di casi relativi, mantenendo così “al minimo” il codice penale.
La questione dell’equilibrio delle parole, comunque, ha il suo peso proprio nella produzione normativa penale: questioni lessicali emerse nella transizione dalle norme del codice Rocco, compilato durante la dittatura fascista, al codice Zanardelli del dopoguerra, sottolineano la secolarizzazione del diritto penale. Come è spiegato nella relazione di Antonio Chizzoniti La tutela penale del sentimento religioso e la libertà di manifestazione del pensiero, attraverso il dibattito sulle parole da scegliere nella compilazione del nuovo codice si comprende la diversità di orientamento politico e culturale tra il regime dittatoriale, che considerava il cristianesimo religione di Stato (in quanto elemento costitutivo della civiltà occidentale) e pertanto in posizione privilegiata rispetto a qualsiasi altra confessione religiosa, e il regime democratico per cui non è più da tutelarsi la religione in sé, ma l’offesa al sentimento degli individui. E la tutela penale del cristianesimo, ovvero del sentimento religioso ad esso legato, è venuta meno in molti campi, persino in quello sportivo, in cui la sanzione di espulsione per la bestemmia pronunciata in campo dal calciatore è stata assimilata al turpiloquio ed ai gesti offensivi, per i quali non è prevista l’espulsione immediata.
In tempi recenti, poi, la stessa burocrazia statale ha dovuto fare i conti con il simbolismo religioso, ponendo problemi nell’ambito molto più tecnico dell’emissione di documenti; il caso nostrano è ormai ben noto ed è diventato (pur essendo stato in qualche modo risolto) un argomento ricorrente nelle lamentele del cittadino qualunque contro la prepotenza, vera o presunta che sia, degli immigranti di fede islamica: la richiesta di permettere alle donne mussulmane di indossare il velo anche nelle foto sui documenti personali, una richiesta che si scontra con la legge n. 152 del 1975 sulle norme di sicurezza che stabilisce il divieto per chiunque di girare a volto coperto o indossando indumenti che ne rendano impossibile l’immediata identificazione (una legge emanata in anni bui, certo, ma ritenuta sempre valida nei suoi concetti di base). Sebbene il legislatore abbia adottato un criterio accettabile nell’art. 10 della legge n. 155 del 2005, per cui è concesso indossare per le foto un velo che non copra alcun tratto distintivo del volto e non renda difficile l’identificazione della persona, secondo Nicola Fiorita, autore della relazione Multiculturalismo e libertà religiosa: il caso del velo islamico, si tratta più che altro di una “legge manifesto”, concepita per dare un messaggio, ma che viene disattesa e che, per altri versi, può invece alimentare una forma di intolleranza lasciando percepire la concessione come un privilegio o addirittura un atto servile.
Fiorita sostiene che il velo islamico possiede un valore polisemico, non può essere ridotto a simbolo politico, in quanto simbolo identitario e pertanto comprendente in sé una gamma di significati molto complessa che necessita di studi approfonditi, non di soluzioni amministrative o atti, questi sì politici, che ne regolino l’uso in base ad altre affermazioni identitarie a rischio di alimentare intolleranza. L’esempio più lampante è naturalmente quello francese, con il divieto di indossare simboli religiosi nei luoghi pubblici e perciò, in primo luogo (data la sua platealità, al contrario di ciondolo sotto la maglietta), il velo nelle scuole statali: il concetto di fondo è l’uguaglianza formale di tutti gli studenti, laddove l’ostentazione di veli o kippah potrebbe ingenerare avversione, discriminazione e divisione; seppur idealmente condivisibile, allo stesso tempo questo provvedimento può nascondere proprio la discriminazione contro le studentesse mussulmane e la negazione del loro diritto al simbolo identitario, ritornando così al punto del valore polisemico del velo. Di nuovo in Italia, basti pensare ad alcune rivendicazioni politiche del nordest per cui il rifiuto dei luoghi di culto islamici e dei loro simboli, specialmente il velo, sono invece l’affermazione dell’identità della maggioranza della popolazione. Tutto questo rende necessario un completo cambio di orientamento nella valutazione del velo islamico e dei simboli identitari, per adottare misure consapevoli sia nel senso di rispettare determinate usanze, sia di promuovere una convivenza tra esigenze spesso in contrasto, ma non per questo in guerra.
La prima sessione del convegno si è chiusa con alcuni interventi altrettanto interessanti su argomenti contingenti.
Il primo è stato Racial profiling e religious profiling negli Stati Uniti d’America dopo l’11 settembre 2001, di Guerino D’Ignazio. Il punto focale è la compressione dei diritti di determinati gruppi etnici in nome della sicurezza nazionale: il racial profiling è una misura antiterrorismo adottata negli USA per cui si tiene conto dell’appartenenza etnica dei cittadini nella priorità dei controlli di sicurezza, che dopo l’attacco terroristico al World Trade Center ha colpito in particolar modo i cittadini di orgini arabe e mediorientali; allo stesso modo viene messa in conto la loro fede religiosa. In sostanza si attua una identificazione tra razza, religione ed attività criminale, con una misura che può essere definita di “emergenza normalizzata”, ossia non vincolata dalla temporaneità del provvedimento: anche se l’allarme terrorismo calasse di intensità, queste misure di sicurezza rimarrebbero in vigore. Forme di discriminazione, quindi, in nome di una sicurezza nazionale al di sopra della tutela dei diritti, che dà origine alla segregazione attuale contro cittadini mussulmani; ma non è una effettiva novità: il precedente storico dell’attacco alla base militare americana di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941 portò alla reclusione di oltre 120.000 cittadini di origine giapponese, con sentenze della Corte suprema emblematiche (una per tutte, Hirabaiashi vs USA Government, 1943). Oggi le conseguenze sono meno esplicite nella società statunitense, persino di fronte alla gravità del caso di Guantanamo; ma recenti orientamenti della Corte suprema hanno messo in discussione la legittimità del famigerato Patrioct Act, le cui deroghe ai diritti costituzionali senza vincoli temporali snaturano alcuni valori propri della tradizione costituzionale nordamericana, con alcune sentenze del 2004 in favore dei limiti all’inferenza delle misure di sicurezza sui diritti individuali. Comunque è indubbio che il racial profiling favorisca generalizzazioni insane, come constata D’Ignazio anche sul versante italiano, con la rappresentazione fatta di albanesi e rumeni sulla scia di fatti di cronaca nera che hanno impressionato l’opinione pubblica, portando ad allargare il giudizio negativo alla nazionalità in se stessa degli immigrati dell’Est.
Il secondo intervento, dal titolo Simboli religiosi e pluralismo democratico: brevi considerazioni sulla vicenda del crocifisso, ha ripreso il tema dei simboli identitari da un’altra angolazione. Alessandro Morelli parte dall’articolo della Costituzione sul tricolore, primo simbolo identitario italiano di natura collettiva, con valori rappresentativi per tutti: l’identità collettiva è di per sé dinamica, evolvendosi nel tempo ed assumendo connotati differenti a seconda dei mutamenti culturali e sociali che caratterizzano la storia di un popolo, per cui un simbolo valido per tutti deve essere necessariamente privo di connotazioni appartenenti a gruppi specifici, finanche alla maggioranza; in quest’ottica rientra la questione se il crocifisso sia simbolo di identità nazionale. Il principio maggioritario non può valere per questioni che riguardano la totalità della popolazione (quindi non potrebbe decidersi una risoluzione con votazione); culturalmente, anzi, il simbolo esposto recede dalla rappresentazione dell’identità nazionale esprimendo invece la preminenza di un gruppo e di una idea sulle altre. D’altro canto, l’esposizione di tutti i simboli non solo rischia di esasperare gli attriti, ma risulta inapplicabile in edifici pubblici come i tribunali (già nelle aule scolastiche sarebbe più semplice). Una proposta che Morelli avanza è l’adozione del principio di totalità, ossia della massima inclusione di significato possibile nella valutazione della complessità di ogni caso, irriducibile a soluzioni di parte.
Nel terzo ed ultimo intervento ad opera di Ercole Giap Parini, La deriva religiosa della scienza, il rapporto scienza-religione viene ribaltato, mettendo in rilievo come nella comunità scientifica e nei suoi metodi si siano sviluppati caratteri propri di una religione, non solo e non tanto nella professione di fede di taluni studiosi, quanto nelle meccaniche stesse di ricerca e sperimentazione. Partendo da una prospettiva storica, è il Positivismo il periodo aureo della scienza, in cui la sfida al pensiero religioso è fruttuosa e spinta al massimo; tutto sembra possibile a cavallo tra XIX e XX secolo, la capacità di progresso insita nella scienza riempie di fiducia le persone, mentre la religione sembra diventare il simbolo di tutto ciò che è vecchio e sostanzialmente falso. Ma la comunità scientifica, similmente alla Chiesa, ha una sua dualità che si esprime tra il dubbio, coltivato nel chiuso dei laboratori, e l’onnipotenza presentata alle genti fuori da quei laboratori. Una caratteristica che poi avrà un esempio estremo nella religione scientifica elaborata da uno dei padri del Positivismo e della sociologia, Auguste Comte. Successivamente lo scienziato non sarà più un “sacerdote” del progresso umano e civile, specialmente a causa dell’asservimento della scienza al profitto ed alle prospettive militari (a partire dal Manhattan Project, che darà vita alla bomba atomica). Oggi la scienza è più laica e profana, forse non ispira più grande fiducia come un tempo e non si presenta più come onnipotente, ma non per questo è priva di elementi “religiosi”: intanto non si è avvicinata ad alcuna forma di democrazia, dato che le decisioni della comunità scientifica non possono sicuramente venir prese con votazioni; poi, l’atteggiamento di alcuni scienziati i quali rinunciano al cosiddetto “dubbio sistematico”, preferendo abbracciare teorie più o meno spirituali o idealistiche su taluni temi di fondo, si può considerare una deriva verso la religione. Più di tutto, sottolinea Parini, si sta facendo strada una oscurità conoscitiva dovuta all’eccessiva dipendenza da macchine sempre più complesse come l’acceleratore di particelle o il microscopio elettronico, il cui funzionamento è noto solo agli specialisti, a coloro che li costruiscono, non a tutti gli scienziati; Questa oscurità conoscitiva porta ad “atti di fede” che trasformano in dogmi i risultati degli esperimenti, avvicinando in tal modo la scienza alle forme della religione.
La sessione pomeridiana si è aperta con la complessa relazione di Augusto Cerri dal titolo La libertà di ricerca scientifica e la libertà religiosa, che ha affrontato il tema della ricerca scientifica da un’angolazione filosofica per mettere in evidenza come l’eticità dell’uomo si dispieghi anche attraverso l’impiego dei talenti umani, coltivando il dubbio sperimentale in una ricerca del sé che va a toccare la questione dell’obiezione di coscienza.
E proprio a partire dalla coscienza, dalla sua libertà, prende le mosse la successiva relazione La libertà religiosa e la libertà di insegnamento di Francesco Onida: mentre negli stati confessionali la subordinazione della libertà di coscienza alla religione è assolutamente esplicita, negli stati laici il formale riconoscimento di questa libertà cede il passo di fronte a vari livelli di privatizzazione dell’insegnamento, “fucina” delle coscienze future, condizionato perciò da chi lo fornisce. Appare evidente che in una scuola privata, pur adottando i programmi ministeriali, gli insegnanti abbiano linee guida nell’esporre determinati argomenti, fornendo date interpretazioni anziché altre o scegliendo cosa omettere dai programmi in base alle direttive dei gestori della scuola. La scuola pubblica, dal canto suo, non è certo esente da condizionamenti: la riconosciuta libertà di insegnamento viene aggirata dai ministeri con imposizioni subdole, con regole e programmi condizionati, appunto, per incidere sull’insegnante e manipolare di conseguenza gli studenti, regolando così il loro accesso alla conoscenza. Un esempio è la proposta di escludere la teoria evoluzionista di Darwin dai programmi di scienza, a fronte però del mantenimento della teoria creazionista nei programmi di religione, o la preminenza delle vicende della RSI nei libri di storia su quelle della Resistenza. Onida affronta anche la ricorrente questione del crocifisso: nella scuola pubblica questo simbolo insinua che chi opera è d’accordo con ciò che esso rappresenta, mentre chi non lo fosse sarebbe costretto a dichiararlo; e che le attività scolastiche si ispirano alle istanze cristiane, il che è un messaggio subdolamente lesivo in quanto obbliga a manifestare posizioni relative a quel simbolo, come se l’insegnamento fosse marcato dall’interesse religioso o antireligioso. Anche la famosa contestazione di 67 docenti contro la lectio magistralis offerta al papa in occasione dell’apertura dell’anno accademico all’Università “La Sapienza” di Roma, è stata secondo Onida condivisibile proprio per la natura laico-scientifica dell’evento, su questioni aliene al consueto ambito di interventi del papa, che per di più non prevede un contraddittorio e che perciò avrebbe sancito una sorta di sacralizzazione delle parole dell’esponente di massimo grado della religione cattolica, dunque un’ombra lunga sull’etica degli insegnamenti.
Il rapporto tra confessioni religiose ed istituzioni laiche ha molti esempi da portare; l’Europa ha avuto nel corso della sua storia molti Paesi chiusi alla libertà di pensiero, ma anche alcuni divenuti simbolo di quella libertà in vari periodi. Uno di questi che più a lungo ha coltivato l’apertura a diverse culture e religioni è stato e continua ad essere, pur tra varie controversie, l’Olanda, di cui si è occupata la relazione di Giovanni Cimbalo Il consociativismo olandese alla prova della globalizzazione. Le consocietà (zuilen) sono organizzazioni che forniscono ai propri aderenti tutti i servizi quotidiani, unendosi moralmente su un elemento religioso; per fare un parallelismo, si può pensare a qualcosa di simile ad una “famiglia” mafiosa (nelle strutture, non certo negli intenti). Nel corso del tempo esse sono diventate rappresentanti delle fedi religiose e, per potersi sostenere e riprodurre, hanno gradualmente distrutto la scuola pubblica in favore delle scuole private, una per ogni consocietà. Al contempo lo Stato olandese ha riunito le zuilen nell’ICO, un’assemblea dei rappresentanti religiosi con cui lo Stato tratta dando così unitarietà agli accordi con tutte le confessioni (come i vari divieti sulla posizione dei luoghi di culto – non possono essercene due su di una stessa strada – o l’abolizione degli stipendi pubblici per i vari sacerdoti); il sistema statale è perciò assolutamente laico. Ma la globalizzazione ha messo in crisi questo sistema con l’immigrazione di massa dei mussulmani, che seguendo lo stesso criterio hanno fondato scuole private islamiche in cui non si coltiva alcuna integrazione con la società olandese, e di conseguenza alimentando una chiusura culturale che non si può arginare, come sarebbe logico, con un’educazione pubblica ormai inesistente. Né lo Stato olandese ha altri mezzi per intervenire direttamente; una strada intrapresa è l’organizzazione delle scuole islamiche all’ombra dell’ICO, con una struttura rispondente al ministero delle finanze, che dia una linea ai programmi scolastici. Ma le ricadute sulla multiculturalità dell’Olanda sono varie e drammatiche, finanche tragiche con l’omicidio del regista Theo Van Gogh, colpevole di aver fatto un film sulla condizione delle donne in alcuni Paesi islamici, o l’ascesa politica del partito xenofobo di Pym Fortuin, anch’egli assassinato, le cui idee hanno avuto un breve ma tangibile successo tra la popolazione.
Un diverso segno di chiusura culturale è la censura. Il Novecento italiano ha vissuto un’epoca aurea in questo campo, iniziando nel segno del fascismo e continuando nella convinzione democristiana di una imprescindibile azione moralizzatrice della società attraverso il controllo dell’arte, in special modo quella cinematografica, del cui potere di suggestione non si può dubitare. Sul lungo iter storico di questa particolare censura si è snodata la relazione di Donatella Loprieno, Libertà dell’arte versus libertà religiosa: il caso della censura nel cinema, ancor più interessante perché elaborata su una faticosa ricerca che non ha potuto contare su studi specialistici pregressi, altro segno di come l’argomento sia poco dibattuto in ambito culturale.
La censura cinematografica, fin dal principio di stampo religioso, si è sviluppata di pari passo con la crescita del mezzo: già nel 1923 vengono introdotte norme e parametri da rispettare per le pellicole d’esportazione, che dovevano fornire una immagine positiva dell’Italia all’estero; nel 1926 è la volta della tutela dei minori, mentre nel 1927 si stabiliscono i requisiti di idoneità nella trama e nella tecnica per poter accedere ai finanziamenti (agevolando così la propaganda fascista). L’interesse dei pubblici poteri si esprime tra censura preventiva e sfruttamento del mezzo. Viene istituito un centro cattolico cinematografico, autonomo e parallelo, che si occupa della revisione delle pellicole ad opera di commissioni moraliste, le quali saranno poi riproposte nel dopoguerra per un tipo di censura meno politicizzato, ma non per questo più blando; in un ideale passaggio di consegne, Loprieno mette in risalto le similitudini tra l’enciclica papale del 1936 “Il cinema” e gli interventi di Giulio Andreotti alla Camera dei Deputati nel 1948 sui compiti di educazione morale del cinema. Nel 1945 c’è sì l’abolizione di molte norme censorie, ma anche l’assenza di tutele con una nuova censura ritenuta irrinunciabile per il buoncostume (citato già nell’art. 21 della Costituzione repubblicana); il dilemma sul rapporto tra oscenità ed arte diventa la nuova base dell’azione censoria, anche brutale, con possibilità di divieto di proiezione, sequestro e taglio di pellicola, chiusura di sale cinematografiche in casi gravi. Il periodo più duro è tra gli anni Sessanta ed i Settanta, con il sequestro di film come Rocco e i suoi fratelli (poi rilasciato solo dopo numerosi tagli), l’accusa di antireligiosità a La ricotta di Pasolini, dimostrazioni di fanatismo come le “messe d’espiazione” per chi aveva visto La dolce vita di Fellini o addirittura la distruzione della pellicola originale di Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, al quale viene pure inflitta la revoca del diritto di voto per cinque anni. La censura si allenta negli anni Ottanta col riconoscimento del diritto alla rappresentazione artistica, ma l’offesa vera o presunta al sentimento religioso continua a mietere vittime: nel 1993 quasi nessuno sente parlare di un film sequestrato ancor prima di essere proiettato, Il ritorno di Thorsen, mentre nel 1997 è la volta di Totò che visse due volte, due film che riprendono la figura di Cristo con rappresentazioni a sfondo sessuale che possono risultare forti, disturbanti; lo stesso vale per il ben più noto L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese, al centro di un vortice di polemiche durissime da parte delle organizzazioni religiose americane e non solo. Aggiungendo alla lista Salò o le 120 giornate di Sodoma, di Pasolini (postumo), in cui le aberrazioni sessuali dei fascisti sono in realtà una spietata accusa verso il potere, Loprieno conclude con un dubbio: lo scandalo per il sesso nasconde in realtà censura per le denunce politiche?