di Vincenzo Ferrari

1.- Nell’interpretare la legge, ammonisce l’art. 12 disp. prel. c. c., non si può dare ad essa altro senso che quello proprio delle parole che esprimono l’enunciato normativo. Anche il riferimento della citata disposizione preliminare all’intenzione del legislatore, e quindi ad una ratio che potrebbe non essere immediatamente manifesta nelle parole, non può prescindere dall’espressione linguistica che caratterizza l’enunciato, facendone il sostrato sul quale deve operare l’ermeneutica dottrinale e giurisprudenziale. Tanto l’una quanto l’altra, nella ricerca di significati non ictu oculi apparenti, possono proporre letture anche variegate e difficilmente percepibili, ma non al punto tale da stravolgere il testo scritto.

L’ermeneutica è pur sempre una ricerca di senso delle parole usate dal legislatore, anche quando esse dovessero rivelarsi inappropriate ad esprimerne l’intenzione, lasciando all’interprete l’opera correttiva di espressioni distoniche rispetto alla ratio della norma che sarà, pertanto, non un prius, ma la risultante dell’opera dell’interprete.

La centralità delle parole, preconizzata dal primato della legge scritta, impone allo stesso interprete di fare uso di parole, onerandolo di un’attenzione particolare al profilo linguistico di modo che la norma interpretata risulti chiara e non necessiti essa stessa di ulteriore interpretazione. Altrimenti sorgerebbe il problema di chi debba interpretare l’interprete.

2.- La giurisprudenza, locus privilegiato per comprendere in modo autentico la giuridicità dei fatti nella loro genesi ontoesistenziale1, non può prescindere dall’uso appropriato delle parole che veicolano i contenuti fattuali delle fattispecie giuridiche. Esse richiedono, infatti, d’essere messe a dimora in un linguaggio che diviene condizione essenziale per la loro stessa comprensione2, cui può pervenirsi solo se la vestizione del fatto mediante parole avvenga nell’ambito di un discorso caratterizzato dal rigore dell’argomentazione3.

Che quello giuridico sia un discorso costituito “di e sviluppabile “con parole è una constatazione fin troppo ovvia4. Si è sostenuto, tuttavia, che “il fatto, non la parola, è l’oggetto della scienza giuridica”5. La ricerca di nuovi assetti ermeneutici, cui non sono estranei profili di semantica giuridica6, ma anche l’ipotesi di un recupero della dogmatica7, inducono oggi a riflettere sulla valenza che, nel discorso giuridico, assume la dinamica tra “fatto giuridico”8 e linguaggio della giurisprudenza.

3.- Un approccio che non voglia limitarsi al punto di vista della scienza giuridica, avendo come riferimento la concreta realtà della pratica, non può ignorare il fenomeno, ben conosciuto dagli operatori del diritto, per cui nel “fare giustizia” si finisce con il “ragionare per sentenze” prescindendo dalla formulazione del testo normativo ed affidandosi (giudici e avvocati) agli enunciati delle massime giurisprudenziali.

La massima giurisprudenziale, che andrebbe apprezzata non tanto come sintesi di una decisione quanto come un viatico per conoscerne l’intera motivazione, nella prassi giudiziaria è assurta a dato conoscitivo autoreferenziale. E poiché i giudici scrivono le sentenze basandosi sulle massime ed altrettanto fanno gli avvocati negli scritti difensivi, ne risulta che la giurisprudenza si forma su dati concettuali filtrati dall’opera dei massimatori, che, per quanto fedele al testo, è pur sempre un’interpretazione di ciò che il testo della motivazione afferma. La giurisprudenza si alimenta delle stesse massime che produce, dando vita ad un tessuto normativo che sostanzialmente si sovrappone a quello degli enunciati legislativi, fino a sostituirlo9.

La giurisprudenza, però, non può essere solo banche dati e numeri, ma è “ragionamento a trama storica che sconta il quadro dei fatti nei quali una vicenda, anche ripetuta nel tempo, si colloca; è analisi argomentativa dei fatti e classificazione di essi secundum legem, cui seguono le ragioni della decisione nel rispetto del principio di trasparenza”10.

4.- Il linguaggio della giurisprudenza, sia sul versante della scienza giuridica sia su quello della pratica giudiziaria, assume una valenza centrale per la comprensione e la corretta interpretazione delle fattispecie. Non sempre esso risponde ai requisiti di rigore cui si è fatto cenno e, quando ciò accade, è il linguaggio stesso a determinare distonie ed incertezze ermeneutiche.

Un esempio emblematico è dato dalla mancata distinzione sul piano semantico della nozione di “alea” da quella di “rischio” che caratterizza la giurisprudenza in tema di contratto di assicurazione11, laddove non si coglie che alimentare lo stereotipo che individua nell’alea l’elemento essenziale del contratto di assicurazione equivale ad avallare un equivoco, di carattere puramente terminologico, che vede nelle massime della giurisprudenza indifferentemente usati come sinonimi i termini di “rischio” e di “alea”12. Se si tiene conto delle accezioni entrate nel linguaggio del diritto vivente, come quelle di alea convenzionale e alea convenzionale illimitata, a fronte di quella di alea normale espressa dal linguaggio legislativo, si comprende quanti possano essere gli equivoci di fonte lessicale e di come sia opportuno restituire l’uso del linguaggio alla valenza di veicolo di significati che esso deve mantenere anche e soprattutto nel diritto, senza essere ridotto a terminologia fine a se stessa e garantendo la correttezza dei processi di comprensione ed applicazione delle norme.

Alea e rischio, infatti, non sono due parole diverse che indicano lo stesso fatto, ma vestizioni verbali di fatti diversi. Nel contratto di assicurazione essi sono compresenti e tuttavia distinti: il rischio quale elemento essenziale, la cui mancanza produce nullità (art. 1895 c.c.), l’alea come elemento negoziale sostanzialmente residuo all’equilibrio dell’operazione economica che sottende. L’esigenza di distinguerli non riposa sul piano terminologico, sorgendo piuttosto dalla diversificata giuridicità dei fatti che quelle parole indicano.

5.- La dinamica tra fatto e linguaggio non può essere svilita a questione di sottigliezze terminologiche (atteggiamento svilente stigmatizzato dal brocardo purus gramaticus purus asinus), ma deve elevarsi sul piano della semantica giuridica quale strumento di conoscenza e governo del fatto.

I fatti hanno una loro giuridicità intrinseca che prescinde dalle parole e che è determinata dalla rilevanza giuridica dei loro effetti13. Tuttavia essi necessitano delle parole per essere descritti, valutati e qualificati. Attraverso la vestizione “verbale” del fatto la giurisprudenza compie quest’opera essenziale, ma se al legislatore bastano poche parole per mandare al macero intere biblioteche, la medesima potenza non può riconoscersi alla giurisprudenza alla quale è richiesta, non la capacità di distruggere, bensì quella di costruire ed eventualmente ricostruire le fattispecie, nel rispetto delle parole usate dal legislatore, ma senza farle assurgere a dogmi intangibili, rettificando i significati sia nel contesto ordinamentale, sia attraverso il prudente apprezzamento delle fattispecie concrete.

Alla giurisprudenza si deve il conio di nuove fattispecie sconosciute al legislatore, attraverso la vestizione verbale di fatti la cui esigenza di disciplina giuridica è emersa dalla prassi. Si pensi solo esemplificamente al danno biologico, recepito dal legislatore sulla scorta dell’elaborazione giurisprudenziale e poi sottoposto a poderose rielaborazioni e distinguo semantici dalla stessa giurisprudenza14; al danno esistenziale che la giurisprudenza, dopo averlo creato, ha ridefinito negandone l’autonomia concettuale di categoria, ma riconoscendone la valenza descrittiva di voci di danno ricollegabili al concetto legislativo di danno non patrimoniale15; all’infortunio in itinere, la cui nozione astratta venne concepita in sede di legge delega ed ignorata dal legislatore delegato con conseguente sviluppo di una giurisprudenza in funzione di supplenza, a sua volta confluita in testi normativi16.

La corretta vestizione verbale dei fatti equivale alla loro corretta qualificazione, a sua volta funzionale al corretto inquadramento giuridico delle fattispecie concrete, ma soprattutto è necessaria alla comprensione della realtà che i fatti narrano. Parafrasando la ricordata metafora della filosofia del novecento, secondo cui il linguaggio è la casa dell’essere, si può affermare che, nella giurisprudenza, il linguaggio è la casa dei fatti.

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Note

1 Cfr. S. COTTA, Il diritto nell’esistenza, Milano, 1991, p. 65

2 Nella filosofia del novecento il distinguo fra esistere e comprendere è focalizzato da M. HEIDEGGER, Lettera sull’umanesimo, trad. it. a cura di F.Volpi, Milano, 1987, p. 267, che annette al linguaggio la funzione di casa dell’essere.

3 Cfr. A. GENTILI, Il diritto come discorso, Milano, 2013.

4 Ovvietà non contraddetta dall’esistenza di un diritto che non utilizza parole, di cui avverte R. SACCO, Il diritto muto, Bologna, 2015.

5 Cfr. P. PERLINGIERI, Tendenze e metodi della civilistica italiana, Napoli, 2008, p. 13.

6 Auspica una rifondazione delle categorie civilistiche, dopo avere denunciato la frantumazione di quelle tradizionali, N. LIPARI, Le categorie del diritto civile, Milano, 2012.

7 Vedi C. CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, Milano, 2012, prologo, p.1 ss., ed epilogo, p. 287 ss.

8 Sulla immedesimazione tra fatto giuridico e fatto materiale, sia consentito il rinvio a V. FERRARI, Giuridicità del fatto materiale e materialità del fatto giuridico, nota a Cass. 13 ottobre 2015 n. 20540, in Foro it., 2015, I, 3832.

9 Sul pericolo che una massima non coerente con la motivazione possa costituire la base di un futuro orientamento giurisprudenziale, cfr. Cass. 13 giugno 2014 n. 13537, in Foro it., 2014, I, 2470, con nota di R. PARDOLESI, nella quale si segnala che la giurisprudenza di legittimità prodottasi negli ultimi cinquant’anni sull’applicazione, al risarcimento danni da morte, del principio della compensatio lucri cum damno, si fonda tutta su una sentenza capostipite, Cass. 7 febbraio 1958 n. 370, che in realtà non riguardava il problema.

10 Sono parole pronunciate all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016 dal presidente della Corte d’Appello di Catanzaro, D. INTROCASO, che, nella Relazione sull’amministrazione della giustizia, ha denunciato i rischi dell’imperante ”pensiero corto”, antitesi dello iusdicere.

11 Cfr. Cass. 17 febbraio 2014 n. 3622, Foro it., 2014, I, 3258, con nota di V. FERRARI, Lo stereotipo dell’alea nel contratto di assicurazione.

12 Per una dichiarazione di nullità del contratto di assicurazione per mancanza di alea, nel caso di inesistenza del rischio ai sensi dell’art.1895 c.c., v. Cass. 30 giugno 2011 n.14410, in Foro it., 2011, I, 2668, con nota di A. L. OLIVA.

13 S. PUGLIATTI, I fatto giuridici, revisione e aggiornamento di A. Falzea, con prefazione di N. Irti, Milano, 1996, 3.

14 Cfr. Cass. 27 novembre 2015 n. 24210, Foro it., 2016, I, 533, con nota di P. ZIVIZ.

15 Sezioni unite 11 novembre 2008 n. 26973, id., 2009, I, 120, con note di A. PALMIERI, R. PARDOLESI – R. SIMONE, G. PONZANELLI, E. NAVARRETTA. Per ulteriori specificazioni semantiche, cfr. Cass. 20 agosto 2015 n. 16992, id., 2016, I, 210, con nota di L. CAPUTI.

16 Da ultimo, v. Cass. 13 aprile 2016 n. 7313, ibid., 2016, I, 2441, con nota di V. FERRARI.

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