di Marco Ferrari
Sommario
- Premessa
- Sulle relazioni tra Stato e Chiesa nell’URSS
- Ateismo di Stato? Gli articoli costituzionali
- Temi principali del Rapporto Il’ičëv (sul piano ideologico; sul piano pratico)
- Suggestioni e provocazioni
Premessa
Il Rapporto Il’ičëv alla Commissione ideologica del PCUS, presentato nella riunione del 25 novembre 1963, fu pubblicato nel gennaio seguente sulla rivista «Kommunist» e ripreso dalla stampa internazionale con un certo clamore, soprattutto dalle associazioni cattoliche. Fu redatto da L. F. Il’ičëv[1], al culmine di una vasta campagna antireligiosa promossa da Chruščëv tra il 1958 e il 1964; tratta fondamentalmente dell’estensione di un’educazione ateistica a ogni livello della società sovietica, partendo dalla premessa dell’insufficienza della propaganda contro i culti e le sette religiose adottata in URSS fino a quel momento. In Italia, la prima edizione fu curata da una rivista cattolica[2], che accompagnò la traduzione dal francese del testo[3] con un commento fortemente polemico sui pericoli dell’azione comunista attraverso il PCI, considerato mera estensione del PCUS; la paura di fondo era di una inedita campagna per l’ateismo in Italia, condotta attraverso l’insegnamento scolastico improntato al materialismo scientifico e alla propaganda ideologica su tutti i fronti.
È un testo alquanto interessante, quello del Rapporto Il’ičëv, sia che lo si prenda come un documento storico sulla politica culturale (e sulla cultura politicizzata) sovietica, sia che lo si esamini con sguardo “anacronistico” in merito alla relazione tra educazione e principi religiosi o ideologici. Dal punto di vista storico, il Rapporto segna un momento culminante di recrudescenza della repressione dei credenti in Unione Sovietica, dopo alcuni anni di relativa libertà, nel dopoguerra, che avevano spinto a un graduale ritorno della Chiesa sulla scena sociale. La necessità di mantenere alto l’impegno ideologico dei cittadini, soprattutto grazie ai successi del regime in campo scientifico, giustificava il rafforzamento dell’educazione nei termini di una profonda estensione del “concetto scientifico del mondo” nella cultura del popolo. Ciò si accompagnava, comunque, a forme di repressione e propaganda tipiche del regime totalitario.
Dal secondo punto di vista, al di là delle necessità e degli interessi politici contingenti, si può intendere questo rapporto alla stregua di un manifesto, esaltato nei toni e negli obiettivi, eppure degno di analisi per alcune questioni, tutt’ora attuali, che pone sul tavolo (o, se si preferisce, sulla cattedra): innanzitutto, l’importanza dell’elevazione culturale dei cittadini, attraverso un quadro coerente di interventi e di iniziative, soprattutto a fronte di un crescente analfabetismo di ritorno, nelle due forme principali di inadeguatezza alla fruizione delle nuove tecnologie e di incapacità di discernere tra contenuti verificati e attendibili, e contenuti alterati, manipolati e persino falsi o errati. Poi, la questione di un’educazione laica, che non vuol dire necessariamente atea, ma certo aperta e propositiva, in cui i valori condivisi e le conoscenze scientifiche formino cittadini consapevoli, in grado di discernere, ad esempio, tra spiritualità e chiusura pregiudiziale alla scienza e ai suoi risultati.
Infine, non senza una certa dose di provocazione, data la fonte, la visione di una società educante, dove ogni occasione sociale sia un’occasione formativa: un elemento che può esse desunto, se opportunamente ricalibrato in senso democratico, dall’impegno, più volte richiamato nel testo, al lavoro di propaganda. Ovvero, da un lato, un serio studio della situazione religiosa, delle motivazioni concrete che mantengono viva la fede nei cittadini – ossia la consapevolezza della natura culturale e storica della religione popolare; dall’altro, il coinvolgimento del maggior numero di istituzioni e associazioni nella diffusione dei concetti scientifici in seno alla vita quotidiana. Un impegno che, se nell’URSS di Il’ičëv era rivolto a un interesse politico ben determinato, un interesse “sistemico” di superamento delle culture tradizionali e al tempo stesso di conservazione ideologica del regime, nella società democratica attuale italiana ed europea potrebbe rivalorizzare il ruolo degli insegnanti, degli intellettuali, dei media, delle associazioni culturali e delle agenzie educative non formali e informali, contro l’influenza perniciosa non tanto della religione, che è soggetta comunque al confronto con la società, quanto di un pensiero irrazionale che veicola teorie del complotto basate su concezioni pseudoscientifiche, la cui legittimazione mediatica dovrebbe destare una profonda preoccupazione.
Sulle relazioni tra Stato e Chiesa nell’URSS
Le relazioni tra lo Stato sovietico e la Chiesa ortodossa, come è noto, sono sempre state molto difficili. In parte, per questioni ideologiche: uno Stato che si dichiarava non solo laico, ma basato su assunti filosofici materialisti, esasperati nell’ideologia del marxismo-leninismo e del Diamat staliniani, non poteva conciliarsi con una Chiesa che aveva mantenuto una impostazione fortemente tradizionalista. La Chiesa ortodossa, d’altra parte, era stata per secoli uno dei pilastri del potere zarista e aveva sostenuto, almeno ai livelli più alti, i tentativi della monarchia di frenare la modernizzazione dell’Impero russo. La religione era pertanto percepita come un residuo ostile dell’antico regime e in larga misura le politiche sovietiche in merito erano di repressione ed eradicazione della cultura religiosa sul piano pubblico, fatto salvo il diritto dei cittadini di professare privatamente la propria fede.
Si possono individuare due periodi particolarmente duri: il primo tra la metà degli anni Venti e la fine degli anni Trenta, nel quadro delle repressioni staliniane, che oltre ai metodi coercitivi aveva visto affermarsi una ingente campagna di “ateismo militante”, inteso come lotta ideologica attiva contro la religione. La distruzione di numerosi luoghi di culto, tra cui la Cattedrale del Cristo Salvatore, a Mosca, per far spazio a un progetto titanico per il Palazzo dei Soviet[4], era una pratica dettata da esigenze simboliche, oltre che di ammodernamento urbano: la futura sede del governo avrebbe dovuto sormontare in altezza le cupole del Cremlino, ritenute ancora simbolo del regime zarista. In generale, religiosi e credenti subivano lo stesso fato, spesso mortale, di ogni altro dissidente. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, Stalin ritenne che lo spirito patriottico sovietico avesse bisogno anche di appellarsi all’identità storica della Russia, cui la religione poteva dare manforte; di conseguenza la repressione fu arrestata e la Chiesa riprese, in parte, lo spazio perduto. La situazione migliorò ulteriormente dopo la morte del dittatore e fino alla fine degli anni Cinquanta i credenti ebbero un’esperienza quasi “liberale” in seno alla società.
Con il consolidamento del governo di Chruščëv, nonostante la destalinizzazione e la distensione internazionale, iniziò un secondo periodo di forte repressione. Questa volta si affermava un “ateismo scientifico” che doveva permeare la società, attraverso una propaganda capillare (con produzione di riviste e film dedicati alla diffamazione delle credenze, la diffusione di iniziative antireligiose tramite il Komsomol e altre organizzazioni e associazioni, ecc.), forme di repressione mirate (pressione fiscale maggiore sulle comunità religiose, lotta al “parassitismo”, criminalizzazione di alcune categorie di credenti ecc.) e, sul lungo termine, una rieducazione in senso ateistico della popolazione, cui il Rapporto fornisce alcune linee guida. I risultati di questa campagna, interrotta dalla rimozione di Chruščëv da tutti gli incarichi nel 1964, furono comunque inferiori alle aspettative e per il resto della storia sovietica le condizioni dei religiosi e dei credenti furono socialmente meno dure, ma comunque mantenute sotto un controllo speciale.
Ateismo di Stato? Gli articoli costituzionali
Dal punto di vista giuridico e formale, l’URSS era uno Stato laico che riconosceva esplicitamente la separazione tra le proprie istituzioni e la religione; nelle sue leggi appariva più avanzato rispetto a diversi paesi occidentali: infatti nelle varie formulazioni era asserita, accanto alla libertà religiosa, la libertà di non professarne alcuna[5]. Questo, è bene ripeterlo, dopo secoli di connubio tra zarismo e ortodossia, di “alleanza fra trono e altare”, in un periodo, la prima metà del XX secolo, in cui in occidente la religione aveva ancora un ruolo molto forte nella società. Già su un piano di comparazione tra regimi totalitari, la differenza di atteggiamento di fronte alla religione risulta lampante tra lo stalinismo (ufficialmente materialista dialettico), il nazismo, con la sua retorica mistica e la commistione di cristianesimo e culti pagani, e ancor di più il fascismo, dal ’29 legato alla Chiesa cattolica dai Patti Lateranensi. Il mondo anglosassone, dal canto suo, conservava un rapporto con la religione che ne indeboliva gli aspetti più liberali[6].
Sin dalla Rivoluzione d’Ottobre, le leggi fondamentali che hanno legittimato il potere sovietico hanno messo in chiaro i principi laici, dirompenti nella situazione culturale russa, su cui dovevano basarsi i rapporti tra il nuovo modello di società e la religione millenaria. La Chiesa ortodossa ha cessato di essere una parte integrante del sistema governativo, mentre l’insegnamento della religione nelle scuole non è stato più obbligatorio. La prima entità giuridica statale rivoluzionaria, la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, nella Costituzione del 1918 stabiliva:
Art. 13. Al fine di assicurare ai lavoratori un’effettiva libertà di coscienza, la Chiesa è separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa, e si riconosce a tutti i cittadini la libertà di propaganda religiosa ed antireligiosa.[7]
La situazione rimase invariata fino al 1936 quando, in piena dittatura staliniana, una nuova Costituzione, definita “la più democratica del mondo”, affinava la sua formalità laica:
Art. 124. Allo scopo di assicurare ai cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa nell’URSS è separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa. La libertà di praticare culti religiosi e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini.
Art. 135. Le elezioni dei deputati sono a suffragio universale: tutti i cittadini dell’URSS, che abbiano compiuto i 18 anni, indipendentemente dalla razza e dalla nazionalità cui appartengano, dalla fede religiosa, dal grado di istruzione, dalla residenza, dall’origine sociale, dalla condizione economica e dalla passata attività, hanno diritto di partecipare alle elezioni dei deputati e di essere eletti, ad eccezione degli alienati mentali e delle persone condannate dal tribunale alla privazione dei diritti elettorali.[8]
Dopo le due ondate di repressione ideologica di cui sopra, il lungo periodo della cosiddetta “stagnazione”, effetto del conservatorismo di Brežnev, rese più sottili le forme di controllo, limitando l’azione della Chiesa ai bisogni religiosi personali dei credenti. Era il diritto penale a fornire le eccezioni necessarie[9] a svincolare il regime dalle garanzie sui diritti costituzionali, che però venivano riformulati e ribaditi anche nella Costituzione del 1977:
Art. 34. I cittadini dell’URSS sono uguali davanti alla legge indipendentemente dall’origine, dalla condizione sociale e patrimoniale, dalla razza e dalla nazionalità a cui appartengono, dal sesso, dall’istruzione, dalla lingua, dall’atteggiamento verso la religione, dal genere e dal carattere delle occupazioni, dalla residenza e da altre circostanze.
Art. 52. Si garantisce ai cittadini dell’URSS la libertà di coscienza, cioè il diritto di professare qualsiasi religione o di non professarne alcuna, di praticare culti religiosi o di svolgere propaganda ateistica. È proibita l’istigazione all’ostilità e all’odio in relazione a credenze religiose. Nell’URSS la Chiesa è separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa.[10]
In effetti, le Costituzioni sovietiche erano tutte flessibili, nel senso che potevano essere riformate per seguire i cambiamenti e gli adeguamenti del sistema con agili procedure; questo però implicava l’assenza di una parte immodificabile sui diritti politici dei cittadini, tipica invece delle costituzioni occidentali, che lasciava un certo spazio di manovra per le esigenze di sicurezza e controllo del regime[11]. Limitatamente al tema in oggetto, si può comunque notare da questi articoli come non vi fosse un “ateismo di stato” ufficiale[12], alla stregua delle religioni di stato in altri paesi. Viene piuttosto lasciata la possibilità di credere in una fede qualunque o di non credere affatto, e di manifestare la propria contrarietà alla religione. La repressione della credenza era giustificata dalla lotta ideologica, più che da una impostazione istituzionale.
Temi principali del Rapporto Il’ičëv
I principi espressi da Il’ičëv riguardano tanto delle affermazioni di carattere ideologico sulla natura scientifica del socialismo, quanto l’individuazione di strategie e organi per una educazione efficacemente orientata all’ateismo. I toni sono spesso esasperati, le definizioni nette e in generale veicola una visione piuttosto manichea, nonché “ottimista” rispetto ai risultati; ma al di là dell’esaltazione della scienza marxista come unica fonte di verità, l’argomentazione ricalca analoghe prese di posizione dell’ateismo in occidente.
Sul piano ideologico
La necessità fondamentale per lo Stato è, secondo Il’ičëv, la formazione di una concezione scientifica del mondo presso tutti i cittadini sovietici. Questo concetto scientifico del mondo è la condizione essenziale del lavoro ideologico per la costruzione della civiltà comunista. Il predominio della scienza implica la capacità di conoscere i segreti più profondi della natura, la possibilità di innalzare il livello di cultura del popolo e di sprigionare le sue forze. Ma, egli avverte, l’elaborazione del concetto scientifico del mondo (un lavoro difficile, di larga portata e molto elaborato sul piano creativo) può riuscire solo a condizione che le sopravvivenze del passato siano attivamente contrastate: ciò riguarda principalmente la religione, da sempre radicata nella cultura popolare e rafforzatasi dopo la guerra. L’educazione ateistica è perciò un dovere, per contrastare l’ideologia religiosa e sostituirla con una ideologia scientifica, ossia un modo scientifico di agire e di pensare.
Per Il’ičëv, la scienza e la religione sono in lotta da secoli, uno scontro in cui la filosofia scientifica oppone la conoscenza delle leggi obiettive della realtà e la loro verifica attraverso l’esperienza pratica, alla immagine fantastica, ideale e snaturata che la religione pone come verità, fissata in dogmi con cui soffoca lo spirito umano e la sua forza creativa. A tal proposito, alcune scienze sarebbero più atee di altre per il fatto conferire la capacità di creare oggetti secondo la volontà umana, il cui esempio principale è la chimica. L’atto creativo non è perciò un mistero, né appannaggio di un “creatore” ineffabile, ma una capacità acquisita dallo spirito umano. Allo stesso modo la psicologia, basata sugli studi di fisiologia cerebrale, ha dato la possibilità di comprendere i meccanismi di funzionamento del pensiero, smontando i miti sull’anima. Infine (come ci si poteva aspettare) il marxismo rappresenta il culmine dell’applicazione scientifica allo studio dell’evoluzione sociale, per cui un apparente “accatastarsi di casi”, regolati tutt’al più dalla volontà divina, sono stati riconosciuti come processi sociali con basi materiali e storiche. Questo vale per la stessa religione, che trova “scappatoie” per salvaguardarsi nelle lacune delle teorie scientifiche, nella mancanza di spiegazioni di determinati fenomeni e nell’impossibilità di conoscere il fine ultimo delle cose, il mistero finale, la ragione ultima dell’esistenza umana e universale[13].
Questo punto implica una possibilità di conciliazione tra scienza e fede, che però secondo Il’ičëv porta sempre al rischio di sottomettere la prima alla seconda, in modo da studiare l’opera di Dio senza metterne in dubbio la realtà. La fede, allora, si attesta come il campo in cui i sentimenti, i desideri, le emozioni e tutta la sfera intima e invisibile della natura umana trovano senso e scopo, mentre la scienza non è in grado di dare spiegazioni morali ed etiche. La religione apre così le porte alla possibilità di usare alcune scoperte e teorie scientifiche a proprio vantaggio e giustificazione[14].
La “restaurazione” dei principi del leninismo nella cultura popolare non si presenta pertanto come un compito facile. Dopo aver preso in considerazione dati statistici sulla diffusione dei vari culti religiosi sul territorio sovietico e aver classificato i credenti in base a fasce d’età e atteggiamento generale nei confronti della fede (cioè in quale grado siano coinvolte le persone, da una intensa devozione a una fede dubbiosa, in modo da determinare i tipi di azione ideologica da intraprendere), Il’ičëv passa a esaminare le insufficienze della propaganda atea in URSS e a delineare i principi di una educazione attivamente ateistica. Riguardo al primo punto, l’autore denuncia un appiattimento dei letterati e dei propagandisti sulle tesi classiche del marxismo rispetto alle basi sociali della religione, limitando la critica a una ripetizione di concetti riferiti a situazioni ormai superate, anziché porre in atto studi concreti sulle sopravvivenze della religione nella società socialista. Non sono soltanto le tradizioni familiari e comunitarie a spingere verso la Chiesa: le condizioni di vita quotidiane, la solitudine, le difficoltà, le disgrazie e altre situazioni che complicano il quadro, hanno la loro buona parte di responsabilità. Perciò la determinazione di fattori oggettivi e la coscienza di fattori soggettivi sono il primo passo per delineare la propaganda ideologica e la formazione educativa. La posizione fondamentale di Il’ičëv può essere esemplificata da questo passo:
«L’educazione atea scientifica propone in primo luogo di denunciare le idee religiose che, qualunque sia la maniera di “sfrondarle”, restano contrarie all’essenza e allo spirito della concezione materialistica del mondo. La lotta contro la religione non è lotta contro i credenti, ma contro le idee antiscientifiche, contro l’ideologia religiosa. Bisogna liberarsi dell’accademismo superfluo che caratterizza il nostro lavoro ideologico e spostare maggiormente l’attenzione sulle “piccole” forme di propaganda e agitazione, come una conversazione intima e franca, una spiegazione paziente. Tenere una brillante conferenza atea non è sufficiente. Bisogna mostrarsi combattivi non soltanto in cattedra ma lottare ancora, sempre e dappertutto per la coscienza di ogni uomo, riportare la vittoria per la verità della vita, per la forza della sua convinzione e della sua umanità. È questo che più precisamente si chiama lotta, non contro gli uomini, ma per gli uomini e contro le cattive idee.
La propaganda antireligiosa attiva non deve pertanto più cadere nel semplicismo, abbordare i fenomeni religiosi in maniera stretta, volgare, materialista. L’ateo deve avere continuamente presente che la religione, qualunque essa sia, non è semplicemente una “frode”, come se la immaginavano i materialisti francesi del XVIII secolo. Le loro opinioni sulla religione in quanto “è una presa in giro” semplifica troppo la questione, non svela l’estensione e la complessità di questo problema, sebbene le loro opere, come ha sottolineato V. I. Lenin in più riprese, contengano un abbondante arsenale d’argomenti, una critica ingegnosa, facile a comprendere, che noi dobbiamo assolutamente utilizzare, anche adesso.»[15]
Si tratta, in effetti, di uno dei momenti più “tolleranti” del testo, veicolando, quantomeno, un principio culturale che si può discutere. Il fatto di contrastare l’ideologia religiosa, più che i credenti, si può vedere come una distinzione tra l’astrattezza ideale, che può condurre anche al fanatismo in assenza di confronti con un pensiero razionale, e la realtà degli esseri umani, delle persone in carne e ossa che danno vita a quelle idee, persone che spesso non sono semplici “fantocci” in mano alla religione, bensì individui in grado di evolversi attraverso la comunicazione e il dialogo. Lo scoglio si presenta nel momento in cui a questo dialogo si sostituisce la militanza condotta verso interessi politici e di Stato, nella convinzione, di per sé antiscientifica, di possedere la fonte di una verità incontrovertibile.
Sul piano pratico
Il’ičëv non è molto chiaro su cosa abbia la priorità, se la formazione del cittadino socialista per sradicare le sopravvivenze religiose o piuttosto il contrario. La vaghezza su questo punto sembra suggerire una interdipendenza delle due situazioni; in ogni caso è evidente, a questo punto, che propaganda, educazione e lotta ideologica siano da intendersi come sinonimi. Le iniziative da attuare nella formazione di un sistema di educazione ateistica sono riassunte in alcuni punti, che possiamo riportare direttamente:
«Bisogna che ci sia innanzitutto una concezione e una critica scientifica della religione moderna che si basi su di una argomentazione approfondita, della sua natura, delle sue tendenze, delle sue manifestazioni nella coscienza e nella psicologia dei diversi gruppi di credenti.
Bisogna farsi un’idea netta del grado e del carattere della religiosità della popolazione in ogni parte del paese, in ogni località, in ogni collettività, in ogni appartamento, in ogni casa, conoscere ogni credente, le sue opinioni e il suo stato di spirito, in fine le cause della sua religiosità.
Bisogna dotare i nostri quadri (insegnando le basi dell’ateismo nelle scuole superiori e tecniche, organizzando una rete d’istruzione politica, delle scuole propagandistiche ed altri mezzi) di un insegnamento per smascherare la religione contemporanea e lavorare i credenti in maniera concreta ed efficace.
Utilizzare nella lotta contro la religione tutti i mezzi e tutte le forme d’influenza sulle persone, tutte le leve ideologiche, tutte le organizzazioni sociali.
Guidare il lavoro ateo in maniera sistematica, orientandolo costantemente verso il fine scelto; conglobare tutti i ceti e tutti i gruppi della popolazione; esercitare un’influenza atea sull’uomo dall’infanzia alla vecchiaia, dedicando un’attenzione particolare ai bambini e agli adolescenti.»[16]
Su questa base, si devono approfondire i temi principali del rialzo del livello della cultura generale della popolazione, dell’educazione atea dei bambini e del dovere sociale dell’intellighentzia di contribuire attivamente a questo processo.
Nell’entroterra si trova il maggior numero di credenti, nei villaggi e nelle zone rurali, nonché tra gli illetterati; lo sforzo deve perciò concentrarsi sull’implemento dell’istruzione pubblica, per creare le condizioni di elevazione culturale laddove siano insufficienti o assenti. Il’ičëv insiste sul nesso tra ignoranza e credenza, avendo come riferimento non solo la Chiesa ortodossa, ma anche le sètte religiose che tendono a un grado maggiore di chiusura. In ogni caso, pone l’istruzione di base come terreno principale per il rialzo del livello culturale.
L’educazione dei bambini è il tema più delicato, perché essi si trovano quasi sempre in conflitto tra ciò che insegna la scuola e ciò che insegna la famiglia. I principali educatori delle giovani generazioni sono i membri anziani delle varie comunità, i nonni, che mantengono la tradizione di inculcare gli insegnamenti religiosi nei nipoti, in quanto la scuola inculca la concezione scientifica. Per Il’ičëv, questo porta a uno sdoppiamento della coscienza nei bambini, estremamente nocivo, a maggior ragione quando l’educazione religiosa sia impartita con severità e persino violenza. Diventa necessario mobilitare forze extrascolastiche, creando un clima di disapprovazione generale degli insegnamenti religiosi settari arretrati.
Per questo il ruolo degli intellettuali, l’intellighentzia, deve riprendere la strada dell’attiva partecipazione pubblica all’educazione ateistica della gente: Il’ičëv ricorda quei progressisti che nella storia della Russia zarista si schieravano contro l’oscurantismo religioso, sottolineando come il fatto stesso di portare la conoscenza scientifica alle masse sia un servizio in tal senso; tuttavia critica gli intellettuali che in pubblico fanno professione di ateismo e in privato continuano a osservare i riti e le tradizioni religiose di famiglia, magari per continuare in buoni rapporti con i parenti, o fare buona figura nella comunità locale, ad esempio nelle regioni musulmane. Anche in questo caso si crea uno sdoppiamento ideologico che in ultima istanza favorisce la permanenza della religione, poiché giustifica un sostanziale disimpegno dallo sforzo collettivo di creazione della cultura scientifica.
A questo punto viene però specificato che un tale impegno collettivo di educazione ateistica e di lotta all’oscurantismo religioso, non deve scadere in eccessi di natura sanzionatoria burocratica, perché la persecuzione dei credenti non solo non mina le loro convinzioni, ma tende a rafforzarne il fanatismo e la chiusura, la diffidenza e il malcontento. L’educazione ateistica deve essere condotta con prudenza, puntando alla convinzione, al dialogo paziente, per “strappare dalla schiavitù della religione tutti quelli che si sono smarriti e riportarli sul terreno della concezione scientifica del mondo”[17] (una scelta di parole, si noti, che in se stessa sembra riprendere lo stesso linguaggio religioso). L’azione deve pertanto essere improntata soprattutto alla comunicazione orale, che è poi il principale mezzo di propaganda religiosa in URSS, essendo i media sotto controllo e già abbastanza ben impiegati; la persuasione è tipica della comunicazione religiosa, mentre spesso la comunicazione ateistica è aggressiva e finanche brutale, quando dovrebbe essere intelligente e convincente. Il seme del dubbio sui dogmi religiosi si può piantare con una conversazione amichevole e sincera, approfondirne gli aspetti in altre conversazioni, passo dopo passo, creando il terreno fertile per un lavoro individuale di successo. Solo con questo lavoro individuale si può rendere efficace il lavoro collettivo, con la mobilitazione del Ministero della Cultura, del Komsomol, dei comitati di Partito, dei sindacati, dei giornali, del cinema, della radio, oltre che delle organizzazioni preposte in modo specifico alla propaganda atea e di molti altri enti.
Non è senza una certa ironia che qui si può notare come Il’ičëv approdi al metodo gesuita, sintetizzato nel motto fortiter in re, suaviter in modo.
Suggestioni e provocazioni
È necessario tenere presente che il Rapporto Il’ičëv è un documento innanzitutto politico, non pedagogico. Solo in ultima istanza può avere un valore per l’educazione in senso stretto. Tuttavia questo valore va al di là del contesto politico che lo ha generato, in quanto le linee di base della critica al ruolo della religione in ambito educativo si ripropongono costantemente nelle società attuali. Il testo andrebbe quindi sfrondato dei suoi giudizi ideologici più rigidi e “caricaturali”, funzionali ad alcuni aspetti del sistema sovietico degli anni Sessanta, e visto semmai come un’esortazione a procedere verso la ripresa di una prospettiva scientifica nel campo pedagogico.
In Italia non è peraltro un dibattito nuovo, dato che sin dal secondo dopoguerra si è sviluppato un difficile passaggio culturale dalla preminenza delle materie umanistiche a quella delle materie scientifiche, attraverso una crescente critica della prospettiva neo-idealista riflessa nella concezione gentiliana della scuola. D’altro canto, il timore che attraverso un’educazione scientifica si potesse diffondere l’ateismo è stato declinato in termini più che altro politici, ideologici, frutto della stagione politica di forte contrapposizione tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista italiano[18]. Nella concreta situazione scolastica, nulla di significativo è accaduto all’insegnamento della religione e alle prerogative della Chiesa in merito[19].
Tornando al Rapporto, si accennava alle questioni cui esso rimanda, tramite suggestioni ormai non più ideologiche, ma almeno provocatorie. Sul piano generale dell’istruzione e dell’educazione, si sta sperimentando da qualche anno un crescente disagio dovuto alla mancanza di coordinamento tra gli ambiti della scuola, del lavoro e della partecipazione sociale. La scuola in particolare è soggetta a una sorta di degenerazione, tanto nei rapporti tra studenti (il cosiddetto bullismo, un fenomeno in crescita anche attraverso le reti sociali), quanto nei rapporti tra le famiglie e il corpo docenti (con incomprensioni che, in alcuni casi, sono sfociate in episodi di violenza) e, più di recente, tra docenti e studenti. Non si tratta di contestazioni motivate, bensì del sintomo di una perdita di riconoscimento del ruolo sociale della scuola, come agenzia educativa e come luogo di formazione personale e collettiva. A tale perdita di riconoscimento contribuisce una sorta di apatia generalizzata nei confronti dell’educazione, sia in senso scientifico che in senso critico, con ricadute pesanti sulla capacità di lavoro, sulla coscienza dei problemi sociali e quindi sulla competenza e la volontà politica di risoluzione. Ciò implica l’esatto contrario della mobilitazione di tutti gli organi competenti auspicata nel Rapporto, ossia la scarsità di impegno nell’interesse dell’elevazione culturale dei cittadini, lasciata a iniziative spesso lodevoli, ma altrettanto spesso isolate, prive di supporto. La prima suggestione provocatoria che possiamo ricavare dal lavoro di Il’ičëv riguarda dunque la ripresa di un impulso collettivo alla crescita culturale, mediante lo sforzo coordinato del maggior numero di enti pubblici, organizzazioni e associazioni possibile: il fenomeno delle fake news, con la conseguente manipolazione delle informazioni, e della legittimazione di teorie pseudoscientifiche come la dannosità dei vaccini, sono problemi endemici delle nuove tecnologie di comunicazione, amplificate dall’incapacità di un numero molto elevato di persone a mantenere una distanza critica dal bombardamento di informazioni. Prive dei mezzi culturali necessari a selezionare, verificare e rielaborare questa mole di informazioni, molte persone sperimentano quasi incoscientemente un analfabetismo di ritorno, che sta rapidamente diventando un’emergenza.
La laicità dell’educazione è un altro tema che non cessa di essere al centro di diatribe politiche e culturali sulla scuola. L’ateismo, che Il’ičëv riteneva essenziale per la coerenza ideologica sovietica, è stato spesso usato come spauracchio contro l’educazione laica e scientifica (e lo è tutt’ora nei paesi teocratici, come nelle zone più isolate di molti paesi “moderni”). Specularmente all’atteggiamento sovietico, movimenti religiosi e istituzioni confessionali hanno ritenuto impossibile dissociare l’insegnamento della scienza dal rischio di aprire la strada alla critica distruttiva dei dogmi e dei testi sacri. Ma se l’ateismo (o l’agnosticismo) non può essere realmente propagandato, in quanto si tratta di una posizione intima e personale rispetto alla spiritualità, cui ognuno può giungere attraverso un proprio percorso, la laicità è invece un valore fondamentale, di portata universale, che consente alla democrazia di svilupparsi in senso progressivo, e all’educazione di amplificarsi e superare l’ambito della mera trasmissione del sapere, per divenire coscienza critica e libero pensiero. Laicità, in campo educativo, non vuol dire escludere la religione, ma al contrario includerla nel percorso di consapevolezza della propria identità culturale, accanto alla conoscenza scientifica, senza una passiva accettazione dei dogmi, ma anche senza un altrettanto dogmatico rifiuto a priori dei concetti espressi dalle varie religioni del mondo. È attraverso cioè di una educazione laica, scientifica, umanistica e critica, che il fanatismo religioso può essere eliminato, mentre, a seconda delle inclinazioni di ognuno, può essere favorito il rispetto per tutte le culture religiose e assicurata a esse pari dignità, su un piano sociale scevro da indirizzi imposti educativamente e politicamente.
Queste suggestioni ci riportano allora alla visione di una società educante, dove ogni occasione sociale sia un’occasione formativa. L’impegno in tal senso non può che essere vasto, complesso e certamente non facile da attuare; ma le premesse, sebbene in larga misura disattese, vengono proprio dalle possibilità sempre più rapide di comunicazione e di integrazione dei processi informativi. Prendiamo come esempio le cosiddette smart cities, le “città intelligenti”[20]: in cosa consiste questa intelligenza, se non nella capacità tecnica di integrare funzioni, processi e meccanismi gestionali e comunicativi, tramite applicazioni, siti internet, connessioni ad alta velocità e possibilità di interazione tra cittadini, istituzioni, trasporti, realtà commerciali, di intrattenimento e di educazione? Una realtà in espansione che democratizza l’amministrazione della cosa pubblica, favorisce la condivisione di informazioni e di esperienze, ma anche di risorse e di soluzioni. Ciò è la premessa per una società in cui l’apprendimento può diventare costante; al tempo stesso, in una relazione dialettica, è anche il risultato della capacità di partecipare attivamente all’evoluzione della città, del contesto di cui si fa parte, grazie alla formazione del cittadino sia come utente che come individuo. Non solo, ma a questo punto si rafforza ulteriormente la necessità imprescindibile di adeguare l’educazione al livello di capacità che una smart cityrichiede, per non rimanere esclusi dal progresso e non rimanere vittime dei danni provocati dall’incompetenza.
Il concetto di smart city è divenuto oggi l’orizzonte verso cui tendere nella creazione di ambienti cittadini improntati alla sostenibilità ecologica, economica e sociale. La necessità di un adeguato capitale umano e intellettuale, che possa accrescere l’efficienza e la consapevolezza del progetto della smart city, richiede una riflessione sui metodi educativi atti a stimolare la creatività e l’adattamento. Una società in continua pianificazione può sfruttare le reti di informazione e comunicazione, creando sinergie concrete tra i cittadini e la pubblica amministrazione nella gestione delle risorse, nella risoluzione dei problemi e nel miglioramento delle condizioni di funzionamento dei servizi pubblici. Il rischio di non riuscire a preparare le persone a questo nuovo modello di partecipazione, lasciando spazio all’incompetenza e allo squilibrio gestionale, è strettamente connesso alle stesse opportunità di crescita offerte dalla tecnologia. Una educazione dialogica che stimoli lo scambio comunicativo è la base e la chiave dei progetti sociali ed economici futuri, basati sulla partecipazione democratica, il comportamento etico e la consapevolezza sociale. E un’educazione dialogica è per sua stessa natura costante, socializzata, laica e scientifica.
Note
[1] Leonid Fëdorovič Il’ičëv (1906-1990), giornalista, filosofo e scrittore, tra il 1961 e il 1965 fu Presidente della Commissione ideologica e Segretario del Comitato centrale (una carica assunta assieme ad altri membri nel periodo di gestione collegiale del potere). Elaborò il rapporto intitolandolo “Attività per rafforzare l’educazione ateistica della popolazione”, che lo attestò come ideologo della campagna antireligiosa; fu anche l’unico suo contributo a ottenere una qualche rilevanza sul lungo termine.
[Nota sui nomi: assumendo in questo articolo la traslitterazione ufficiale dal cirillico, conviene sottolineare che la pronuncia corretta del nome è “ilicioff”, così come per Chruščëv è la consueta “cruscioff”].
[2] L’educazione atea. Rapporto Ilitchev alla Commissione Ideologica del P.C.U.S. Testo e commento, Edizione «Orientamenti sociali» ICAS, con premessa di M. Puccinelli e commento di V. Rovigatti, collana “Studi e documenti”, Roma 1964.
[3] Ripreso dalla rivista «Informations Catholiques Internationales», n. 211, 01/03/1964, traduzione di F. De Leva e G. da Cascina.
[4] Un progetto talmente imponente da rivelarsi irrealizzabile; al suo posto, venne poi costruita la più grande piscina all’aperto del mondo. La cattedrale, edificata ai tempi della vittoria su Napoleone, era uno dei simboli più prestigiosi dell’Impero; è stata ricostruita negli anni Novanta in modo identico all’originale.
[5] Che poi, come si è visto, lo Stato riuscisse a trovare il modo di fare il contrario, in questa come in altre questioni, è un problema ulteriore, in aggiunta ai tanti motivi del successivo degrado del sistema, fino alla sua dissoluzione.
[6] Basti pensare alla Chiesa anglicana, il cui capo è il sovrano britannico, e all’etica puritana che sottende a molte scelte politiche negli USA (inoltre, lunghe sono state le battaglie legali per dichiarare incostituzionali quelle leggi di singoli Stati che, in violazione del Primo Emendamento, introducevano principi religiosi nella legislazione locale).
[7] Il testo in italiano è consultabile in rete all’indirizzo: https://www.marxists.org/italiano/archive/storico/cost-urss.htm. A ciò si può aggiungere il Progetto di programma del PCR(b), redatto da Lenin nel 1919, che al punto 10 riporta: “Quanto alla religione, la politica del PCR(b) consiste nel non fermarsi alla già decretata separazione della Chiesa dallo Stato e della scuola dalla Chiesa, cioè a provvedimenti che la democrazia borghese ha promesso, ma che non ha mai applicato fino in fondo in nessun luogo al mondo, a causa dei molteplici legami di fatto fra il capitale e la propaganda religiosa. Il partito mira alla distruzione completa del legame fra le classi sfruttatrici e l’organizzazione della propaganda religiosa, e alla emancipazione reale delle masse lavoratrici dai pregiudizi religiosi, organizzando a tal fine la più larga propaganda scientifica e antireligiosa. Nel fare ciò bisogna evitare con cura di offendere i sentimenti dei credenti, il che condurrebbe soltanto al rafforzamento del fanatismo religioso”.
[8] Disponibile in pdf all’indirizzo: http://www.dircost.unito.it/cs/pdf/19361205_urssCostituzione_ita.pdf
[9] Ogni attività considerata “antisovietica” era punita dall’art. 58 del Codice penale della RSFSR (inizialmente “controrivoluzionaria”, risalendo questo al 1927), ma la definizione delle attività contro lo Stato lasciava ampio margine di interpretazione, come analizzato da A. I. Solženicyn in Arcipelago Gulag (Mondadori, 1974).
[10] Disponibile in pdf all’indirizzo: http://www.dircost.unito.it/cs/pdf/19771007_urssCostituzione_ita.pdf
[11] Cfr. Biscaretti Di Ruffia P., Crespi Reghizzi G., La Costituzione sovietica del 1977. Un sessantennio di evoluzione costituzionale nell’U.R.S.S., Giuffrè Editore, Roma 1990.
[12] L’unico paese al mondo dichiaratosi ufficialmente ateo fu la Repubblica Popolare Socialista d’Albania, sotto il governo di Enver Hoxha, che formalizzò l’ateismo di stato nella Costituzione del 1976, all’art. 37 (“Lo Stato non riconosce alcuna religione ed appoggia e svolge la propaganda atea al fine di radicare negli uomini la concezione materialistica scientifica del mondo”) e includendo la religione nei divieti di associazione, all’art. 55 (“È vietata la creazione di qualsiasi organizzazione a carattere fascista, antidemocratico, religioso e antisocialista. È vietata l’attività e la propaganda fascista, antidemocratica, religiosa, guerrafondaia, antisocialista, come pure l’istigazione all’odio nazionale e razziale”).
[13] Una situazione denunciata oggi in America da Richard Dawkins e sostenuta invece da Paul Davies, entrambi autori di numerose pubblicazioni scientifiche, nonché militanti contrapposti. Cfr. Dawkins R., L’illusione di Dio, Mondadori 2007; e Davies P., Dio e la nuova fisica, Mondadori 1994.
[14] Oltre al citato Davies, scienziato aperto al mondo religioso, vi sono teologi che nell’apertura al mondo scientifico trovano la possibilità di modernizzare la Chiesa. Interessante a questo proposito la posizione di Hans Kung, come espressa in L’inizio di tutte le cose, Rizzoli 2006.
[15] L’educazione atea, cit., pag. 24.
[18] Nella premessa al testo del Rapporto, nell’edizione citata, si prevedeva ad esempio che il PCI avrebbe accolto interamente i dettami ateistici di Mosca, edulcorando semmai i termini propagandistici, ma ribadendo l’incompatibilità tra comunismo e religione, aprendo così a una stagione di scontro culturale inevitabile. Concetto ripreso anche dal commento posto in calce, dal significativo titolo di “Lotta senza quartiere alla religione e a Dio”, in cui prima si equipara l’ateismo comunista all’ateismo scientista degli illuministi, che cercavano di distruggere la religione con la luce della ragione, per poi ridurre tutto a un’esaltazione puerile di fronte a grandi e nuove scoperte scientifiche, una “orgia scientista” che in occidente aveva già ceduto il passo alla disillusione e al nichilismo. Per questo, secondo l’autore, era necessario passare al contrattacco e usare le indicazioni dello stesso Il’ičëv contro l’educazione atea e scientifica, promuovendo un’educazione e una propaganda fortemente religiose.
[19] Si pensi alla ricezione dei Patti Lateranensi nell’art. 7 Cost., e al loro rinnovo tramite gli accordi di Villa Madama negli anni Ottanta.
[20] Cfr. Dall’Ò G., Smart City. La rivoluzione intelligente delle città, Il Mulino 2014.