di Francesca Barone
Sommario
- L’art. 2087 c.c.: un pilastro della tutela lavorativa
- Demansionamento e tutela della salute: l’interconnessione tra l’art. 2087 c.c. e l’art. 2103 c.c.
- Il ruolo del risarcimento economico: oneri e doveri nell’obbligo di sicurezza. Osservazioni conclusive
1. L’art. 2087 c.c.: un pilastro della tutela lavorativa
L’articolo 2087 del Codice Civile stabilisce che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”1.
Questa disposizione impone al datore di lavoro un obbligo di sicurezza che va oltre la semplice osservanza delle normative specifiche in materia di prevenzione degli infortuni. Infatti, l’art. 2087 c.c. funge da norma di chiusura del sistema antinfortunistico, imponendo l’adozione di tutte le misure generiche di prudenza, diligenza e osservanza delle norme tecniche e dell’esperienza, anche in assenza di specifiche previsioni normative.
L’autonomia decisionale del datore di lavoro deve necessariamente rispettare i diritti essenziali dei lavoratori, come sancito dalla Costituzione, che ha contribuito a dare una nuova prospettiva alla normativa in materia di sicurezza.
La tutela della salute non è soltanto un principio generale, ma un elemento centrale nel rapporto di lavoro, il che rende imprescindibile l’applicazione di misure efficaci per prevenire infortuni e malattie professionali. La tutela dei lavoratori non è un obbligo secondario, ma un elemento essenziale del rapporto contrattuale.
Pur essendo distinta dall’impegno retributivo, essa si integra nel sinallagma contrattuale, ponendo al centro la salvaguardia dell’integrità fisica e morale del dipendente.
La giurisprudenza ha chiarito che l’obbligo sancito dall’art. 2087 c.c. non configura una responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro. La responsabilità è di natura contrattuale e si basa sulla colpa, ossia sulla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Pertanto, il lavoratore che lamenti un danno alla salute deve provare l’esistenza del danno stesso, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale tra i due. Solo dopo tale dimostrazione, spetta al datore di lavoro provare di aver adottato tutte le misure necessarie a prevenire il danno2.
Inoltre, il datore di lavoro è tenuto a prevenire anche le condizioni di rischio derivanti dalla possibile negligenza, imprudenza o imperizia del lavoratore, adottando tutte le misure preventive idonee, con l’unico limite rappresentato dal cosiddetto “rischio elettivo”, ossia una condotta del lavoratore del tutto estranea alle mansioni lavorative e imprevedibile per il datore di lavoro.
La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che l’art. 2087 c.c. non introduce una forma di responsabilità oggettiva per il datore di lavoro. Ad esempio, nella sentenza n. 15733 del 5 giugno 2024, la Suprema Corte ha affermato che “il contenuto dell’obbligo di sicurezza, previsto dall’art. 2087 c.c., non determina una responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro”.
In un’altra pronuncia, la Cassazione ha sottolineato che l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare non solo le misure di sicurezza previste dalla legge, ma anche quelle suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, al fine di garantire la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei lavoratori.
L’art. 2087 c.c. rappresenta una norma cardine nel sistema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, imponendo al datore di lavoro un obbligo di protezione che va oltre la semplice osservanza delle normative specifiche, estendendosi all’adozione di tutte le misure necessarie, secondo le circostanze, per garantire la sicurezza e il benessere dei lavoratori
2. Demansionamento e tutela della salute: l’interconnessione tra l’art. 2087 c.c. e l’art. 2103 c.c.
L’articolo 2087 del Codice Civile rappresenta un pilastro fondamentale nella normativa sulla sicurezza del lavoro, ponendo in capo al datore di lavoro un obbligo di protezione che non si esaurisce nella semplice osservanza delle disposizioni contrattuali. Il dovere di sicurezza, infatti, non è un elemento accessorio del rapporto di lavoro, ma costituisce una componente essenziale volta a garantire l’incolumità psicofisica del lavoratore. Tra le diverse violazioni di questo obbligo, una delle più ricorrenti è il demansionamento, disciplinato dall’articolo 2103 c.c., che non solo compromette la professionalità del dipendente, ma può determinare un impatto significativo sulla sua salute fisica e mentale.
La giurisprudenza ha più volte sottolineato come l’assegnazione a mansioni inferiori possa provocare stati di stress, ansia o addirittura sindromi depressive, con effetti concreti sul benessere del lavoratore. In questi casi, la lesione della dignità professionale3 si salda con un danno alla salute, determinando una responsabilità datoriale riconducibile all’art. 2087 c.c. Di conseguenza, il datore di lavoro non deve limitarsi a rispettare la qualificazione e l’inquadramento professionale del dipendente, ma ha anche l’obbligo di prevenire ogni situazione che possa nuocere alla sua integrità psicofisica.
A chiarire ulteriormente questa relazione tra demansionamento e danno alla salute è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione, che, con la sentenza n. 6572 del 2006, ha stabilito la necessità di un accertamento medico-legale per comprovare il danno biologico. Ciò significa che il pregiudizio subito dal lavoratore deve essere oggettivamente dimostrabile e valutato sulla base di criteri4 medico-scientifici. Analogamente, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 233 del 2003, ha affermato che il danno biologico ha un’autonoma rilevanza rispetto al danno patrimoniale e deve essere risarcito per la sola lesione dell’integrità psicofisica, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla capacità di produrre reddito.
Per ottenere il risarcimento del danno subito, il lavoratore deve dimostrare tre elementi essenziali. In primo luogo, deve provare l’inadempimento del datore di lavoro, ossia l’assegnazione a mansioni inferiori in violazione dell’art. 2103 c.c. In secondo luogo, deve fornire evidenza del danno alla salute, attraverso certificazioni mediche e valutazioni specialistiche. Infine, è necessario dimostrare il nesso di causalità5 tra il demansionamento e il pregiudizio subito, attestando che il deterioramento delle condizioni psicofisiche6 sia direttamente riconducibile alla condotta del datore di lavoro.
Nel caso in cui venga accertata la responsabilità datoriale, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, in applicazione dell’art. 2087 c.c. La Cassazione, con la sentenza n. 17684 del 2014, ha chiarito che tale risarcimento è dovuto anche in assenza di specifiche violazioni di norme prevenzionistiche7, laddove il datore di lavoro non abbia adottato le misure necessarie per tutelare la salute del dipendente. Questo principio conferma che la responsabilità datoriale non si esaurisce nell’osservanza formale delle norme di sicurezza, ma implica un dovere più ampio di prevenzione del danno.
Alla luce di queste considerazioni, il rispetto dell’art. 2103 c.c. non è soltanto un obbligo legale, ma rappresenta anche uno strumento fondamentale per evitare il verificarsi di danni alla salute del lavoratore. Garantire l’assegnazione a mansioni adeguate non significa soltanto preservare la professionalità del dipendente, ma anche scongiurare l’insorgere di conseguenze dannose che potrebbero determinare una violazione dell’art. 2087 c.c. In quest’ottica, la tutela della dignità e dell’integrità psicofisica del lavoratore diventa un obiettivo imprescindibile, che il datore di lavoro deve perseguire attraverso un’organizzazione del lavoro rispettosa delle competenze acquisite e delle condizioni di benessere complessivo del personale.
3. Il ruolo del risarcimento economico: oneri e doveri nell’obbligo di sicurezza: Osservazioni conclusive.
L’obbligo di sicurezza8 sancito dall’articolo 2087 del Codice Civile impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie per garantire l’incolumità del lavoratore. Questo dovere non si limita a un mero adempimento formale, ma si configura come un principio inderogabile del rapporto di lavoro. Tuttavia, sorge una questione di grande rilevanza: come si può garantire che l’obbligo di sicurezza sia effettivamente rispettato e non ridotto a una semplice valutazione economica delle conseguenze della sua violazione?
La risposta a questo interrogativo si articola su più livelli. Da un lato, vi è il problema della sanzione e del risarcimento economico, che possono fungere da deterrente ma rischiano di essere percepiti come strumenti insufficienti per tutelare in modo pieno e concreto i diritti del lavoratore. Dall’altro, emerge la questione della tutela in forma specifica, ovvero la possibilità di imporre al datore di lavoro di adempiere effettivamente all’obbligo, senza concedergli l’opzione di eludere la norma pagando un risarcimento monetario.
Il risarcimento per equivalente, infatti, pur rappresentando un rimedio diffuso nella prassi giurisprudenziale, solleva diverse criticità. Affidarsi esclusivamente a un indennizzo economico può portare il datore di lavoro a considerare la violazione dell’obbligo di sicurezza come un costo prevedibile e gestibile all’interno delle dinamiche aziendali. In tal modo, si favorisce un approccio speculativo che mette in secondo piano l’effettiva protezione del lavoratore, trasformando la sicurezza in un semplice fattore economico e non in un principio inderogabile.
In questa prospettiva, si comprende la necessità di adottare misure che rafforzino il vincolo contrattuale e assicurino un’adeguata tutela del lavoratore. La reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo, prevista dall’articolo 18 della legge n. 300 del 1970, rappresentava un chiaro esempio di risarcimento in forma specifica, finalizzato a ripristinare l’equilibrio contrattuale alterato da un comportamento illecito. Questa impostazione risponde a una logica che non si accontenta della sola riparazione economica, ma punta a ristabilire le condizioni originali del rapporto di lavoro.
La Corte di Cassazione9 ha più volte ribadito che il creditore non è obbligato ad accettare un risarcimento per equivalente quando sia possibile ottenere l’esatta esecuzione della prestazione dovuta. Nel contesto dell’obbligo di sicurezza, ciò significa che il lavoratore ha diritto a pretendere un ambiente lavorativo sicuro e conforme agli standard normativi, senza che il datore di lavoro possa limitarsi a compensare economicamente eventuali mancanze.
Non si può ignorare, inoltre, che il rapporto di lavoro coinvolge aspetti che vanno oltre la semplice dimensione patrimoniale. La sicurezza sul lavoro rientra in un quadro più ampio di tutela dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti dalla Costituzione. Per questo motivo, ridurre la questione a una mera quantificazione economica rischia di svilire l’importanza del diritto alla salute e alla sicurezza, che devono essere garantiti con strumenti realmente efficaci.
In conclusione, il rispetto dell’articolo 2087 del Codice Civile non può essere affidato esclusivamente a misure risarcitorie di tipo economico. La tutela in forma specifica rappresenta uno strumento essenziale per garantire che l’obbligo di sicurezza non venga ridotto a una mera variabile economica, ma si affermi come principio inderogabile del rapporto di lavoro. Solo attraverso un’azione efficace di adempimento sarà possibile prevenire violazioni e assicurare ai lavoratori la protezione che la legge intende garantire.
Note
1 Sul tema cfr. C. Smuraglia, La persona del prestatore nel rapporto di lavoro, Milano, 1967; L. Montuschi, Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, Milano, 1986; E. Balletti, La cooperazione del datore all’adempimento dell’obbligazione di lavoro, Padova, 1990; F. Santoni, La tutela della salute nel lavoro atipico, in L. Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, Torino, 1997, p. 225 e ss.; M. Lanotte, Il danno alla persona nel rapporto di lavoro, Torino, 1998; M. Ricci (a cura di), La sicurezza del lavoro, Bari, 1999; G. Santoro Passarelli, Osservazioni in tema di danno alla salute del lavoratore, in MGL, 2000, p. 1175 e ss.; V. Luciani, Danni alla persona e rapporto di lavoro, Napoli, 2007; P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona. Art. 2087, in P. Schlesinger (fondato da) e F. D. Busnelli (diretto da), Il codice civile. Commentario, Milano, 2008; M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, 2008; N. Sapone, I danni nel rapporto di lavoro, Milano, 2009; G. Proia, Il diritto all’integrità psicofisica, in G. Santoro Passarelli (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Privato e pubblico, Milano, 2014, p. 1071 e ss.
2 La giurisprudenza spesso richiama il collegamento tra l’art. 2103 e l’art. 2087 c.c. facendo ricorso al meccanismo di cui si dà notizia, ponendo la dequalificazione, scaturente da un comportamento commissivo, “a monte” ed il danno conseguenza, che il datore di lavoro non ha impedito, “a valle”: cfr. Pret. Bologna, 8 aprile 1997, in Foro It., Repertorio, 1998, voce Lavoro (rapporto), n. 897; Trib. Milano, 6 maggio 2002, in RCDL, 2002, p. 635: «Ove la dequalificazione, attuata in violazione dell’art. 2103 c.c., abbia dato luogo a una psicopatologia comportante inabilità temporanea, compete al dipendente il risarcimento del danno biologico e del danno morale, da ricollegare alla violazione dell’art. 2087 c.c., determinabili secondo parametri equitativi».
3 Cfr., R. Casillo, La dignità nel rapporto di lavoro, W.P. C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, 2008, n. 71.
4 M. Franzoni, Il danno risarcibile, Milano, 2010, p. 493 e ss.
5 Cfr., fra le tante, Cass. 24 gennaio 1990, n. 411, in LPO, 1990, p. 2387, con nota di M. Meucci.
6 La natura dell’oggetto dell’accertamento non consente facili esplorazioni. Tuttavia non è raro imbattersi in sentenze che danno atto di “stat[i] di frustrazione di insoddisfazione personale, di disaffezione, di perdita di interesse, di profonda tensione emotiva“, cfr. Cass., 12 dicembre 1995, n. 12705, in RGL, 1996, I, p. 33.
7 Cfr., fra le tante, Cass. 24 gennaio 1990, n. 411, in LPO, 1990, p. 2387, con nota di M. Meucci.
8 Si veda M. Corrias, Sicurezza e obblighi del lavoratore, Torino, 2008, p. 30 e ss. e, in particolare, la bibliografia citata nella nota 104.
9 Cass. S.U., 10 gennaio 2006, n. 141, FI, 2006, I, 704, con note di Dalfino e Proto Pisani; anche in RIDL, 2006, II, 440, con nota di Vallebona; ADL, 2006, 594, con nota di Menegatti. In argomento v. F. Santoni, Tecniche sanzionatorie e rimedi risarcitori nei rapporti di lavoro, DML, 2008, 1-2, 45 ss.