di Marco Ferrari
Esce in questi giorni l’edizione critica di Mein Kampf a cura di Vincenzo Pinto e Alessandra Cambatzu per l’associazione culturale “Free Ebrei”, in vari formati, dal cartaceo all’e-book. Un’edizione che presenta un apparato critico molto ricco e approfondito, con cui si mira a contestualizzare e soprattutto ad analizzare minuziosamente le informazioni contenute nell’opera di Hitler, secondo la logica del fact checking, del controllo dei fatti per svelare le falsità, le incongruenze e le effettive verità espresse in un determinato testo. Il piano editoriale prevede due volumi: il primo presenta il testo integrale e l’apparato critico, il secondo conterrà approfondimenti di vari autori italiani e stranieri.
L’iniziativa, data l’opera in questione, non può che essere lodevole: dal 2015 il Mein Kampf è divenuto infatti di pubblico dominio, essendo scaduti i settant’anni previsti per la conservazione dei diritti d’autore (che erano passati, nel dopoguerra, al Land della Baviera). Da quel momento, la ripubblicazione del testo si è moltiplicata e le varie edizioni ora facilmente disponibili, tanto in Italia quanto all’estero, hanno generato preoccupazioni e polemiche; se un tempo si parlava di nazionalismo sciovinista, oggi si può parlare di populismo xenofobo, cui un’opera tanto demonizzata – e perciò stesso mitizzata – può fornire giustificazione e sprone.
Proprio dalla Germania è però arrivata la prima edizione storico-critica ampiamente documentata, a cura dell’Istituto di storia contemporanea di Monaco, di cui l’edizione Free Ebrei tiene conto. Il lavoro di immersione nelle farneticazioni logorroiche di un testo pesante e spesso confuso, ha portato alla costruzione di un enorme apparato di note che spiegano ogni passaggio, ogni singola affermazione, per rendere assolutamente chiaro e leggibile non solo il testo in sé, ma anche il mondo oscuro di idee e riferimenti che ne sta alla base. Ne risulta la costante prova dei fatti, attraverso la meticolosa verifica sui documenti, che porta l’apparato a circa duemila note al testo.
Un’edizione molto meticolosa anche quella italiana, dunque, che prende le mosse dal lavoro tedesco senza per questo limitarsi a proporne le conclusioni, e si prende la briga di ritradurre l’intera opera, superando le versioni ufficiali e ufficiose già apparse. Questa nuova traduzione, condotta da Alessandra Cambatzu e Vincenzo Pinto, è corredata da «una sinossi contenente la genesi, il contenuto e l’analisi di ogni singolo capitolo, l’individuazione di parole-chiave e una bibliografia aggiornata coi principali titoli sulle origini del nazismo […]. Al termine di ogni capitolo abbiamo poi aggiunto un approfondimento didattico, costituito da due sezioni: analisi retorica e analisi storico-culturale. Si tratta di alcuni spunti forniti al lettore o al docente che vogliano cimentarsi nell’approfondire la struttura del testo e il contesto storico-culturale in cui è emerso»1. A tutto ciò si aggiungono un saggio introduttivo dello storico Richard Overy, le numerosissime note al testo con riferimenti storici, bibliografici e critici, nonché una raccolta di immagini dell’epoca, provenienti da vari archivi. Un lavoro enorme, al pari di quello tedesco, che può sembrare “esagerato” nello sforzo di sezionare un libro che forse in pochi leggeranno sul serio. Eppure, come si diceva, uno sforzo lodevole e fondamentale, affinché non vi siano più equivoci sulle parole del Führer.
L’importanza di questa operazione è dettata dalla facilità con cui determinate affermazioni sloganistiche sono prese in considerazione ancora oggi. Le varie edizioni di Mein Kampf, quasi tutte a cura di case editrici politicamente schierate, hanno in comune la caratteristica di non essere critiche, di presentare il testo nudo e crudo: come è facilmente intuibile, gran parte delle idee di Hitler riecheggiano con forza nei discorsi xenofobi attuali e sono esposte nel suo libro in modo più “affascinante”, più viscerale – e dunque più convincente. Senza il contesto e la verifica, il discorso hitleriano assume, di nuovo, i toni dell’esortazione alla soluzione di questioni che tutti hanno sotto gli occhi, ma che nessuno ha il “coraggio” di denunciare per timore di essere etichettato come reazionario. Ma la preoccupazione per questo aspetto porta spesso alla conclusione più facile: la censura e l’oblio. Non è infatti più semplice impedire che un testo del genere circoli? Una tale attenzione da parte di eminenti studiosi, non rischia di fornire un involontario avallo a un “libro maledetto”? Sempre Pinto, nell’introduzione, riflette:
Se Hitler è il “male”, perché ripubblicare il Mein Kampf e non un’altra testimonianza di un sopravvissuto? Perché il “carnefice” deve avere diritto di parola? Il “male” è pedagogicamente sterile oppure, come crediamo noi, va capito e compreso in profondità? Ripetiamo in profondità, perché fermarsi alla superficie delle cose è un’operazione tanto ricorrente nel mondo politico, giornalistico e intellettuale, quanto eticamente e didatticamente inutile, se è vero che dopo oltre settant’anni non sembrano affatto risolti i nodi che hanno portato all’ascesa del nazismo, al proliferare dell’antisemitismo e, più in generale, all’odio del diverso. Se tutti i nodi restano ancora irrisolti e se la politica e la legislazione non sono altro che lodevoli palliativi per contenere la proliferazione di determinate idee nell’epoca della democrazia virtuale di massa globalizzata, è forse giusto tentare di scardinare in profondità il meccanismo retorico che alimenta la cultura del nazionalsocialismo nell’unico modo possibile: vivisezionandolo2.
Il rischio insito nella censura è, per contro, l’esaltazione di un messaggio considerato pericoloso, che può essere percepito da chi non ha adeguati mezzi culturali come una verità negata. Forse anche pensando a questo aspetto, Indro Montanelli scrisse il suo famoso giudizio: «La lettura del Mein Kampf io la renderei, per legge, obbligatoria. Fuori dal contesto in cui fu concepito e scritto, quel libro non è che un cacciucco di coglionerie»; seppure dava per scontato che basti leggere il testo per comprenderne l’assurdità, Montanelli evidenziava due problemi speculari, ovvero la necessità di conoscere il libro maledetto per spezzarne l’incantesimo e, per converso, la sua contestualizzazione al fine di svelarne le “coglionerie”, che spesso sono state prese per buone proprio in quanto decontestualizzate.
Da questo punto di vista, comunque, non sono mancati tentativi precedenti al lavoro di Pinto. La prima edizione critica apparsa sul mercato italiano, in effetti, risale al 2002, a cura di Giorgio Galli per la Kaos Edizioni, dal titolo Il “Mein Kampf” di Adolf Hitler. Le radici della barbarie nazista. Propone un apparato critico di tutto rispetto, che mira a contestualizzare il più possibile il testo, presentato – nella prima stampa – integralmente: una cronologia, una raccolta di opinioni di storici eminenti, una breve storia del Mein Kampf in Italia, l’introduzione di Galli, un nutrito apparato di note e una postfazione di Gianfranco Maris. Lo stesso Galli esprime in modo chiaro il progetto:
Questa riedizione del Mein Kampf ha un triplice significato. Il rifiuto etico-intellettuale di ogni tabù e di qualunque forma di censura. La storicizzazione di un testo la cui lettura deve rappresentare un imperituro monito. La denuncia di rimozioni e mistificazioni all’ombra delle quali si vorrebbero legittimare disinvolti quanto pericolosi revisionismi storiografici. È opinione diffusa che il Mein Kampf hitleriano sia un libro dell’orrore, un compendio di farneticazioni. Si può continuare a ritenerlo tale, ma solo dopo averlo letto (e quasi nessuno, oggi, all’inizio del Terzo millennio, lo ha davvero letto), debitamente contestualizzato, e ben compreso nella sua autentica dimensione non già di causa bensì di effetto degenerativo della cultura occidentale3.
Un discorso a parte andrebbe fatto su questa ultima affermazione. Se è vero, come ha detto Marx, che le filosofie non spuntano dalla terra come funghi, ma sono frutto del loro tempo e del loro popolo, allora le origini culturali del nazismo non si collocano fuori dalla cultura europea per il solo fatto di essere illiberali e razziste. La difficoltà nel comprendere come sia stato possibile l’avvento del nazismo e la piena accettazione della sua barbarie, in un paese che aveva prodotto alcuni dei più grandi pensatori e movimenti artistici della storia, con una cultura vasta e profonda, è in realtà un equivoco contemporaneo. Perché molti elementi che nell’ideologia nazionalsocialista sono stati enfatizzati, fanatizzati e portati alle estreme conseguenze, con una coerenza fra teoria e pratica pressoché assoluta, erano elementi culturali già presenti e profondamente radicati proprio nella cultura europea, non solo tedesca. Basterebbe ricordare l’antigiudaismo cristiano, che tanto nel cattolicesimo quanto nel protestantesimo, ha sempre definito gli ebrei come una stirpe maledetta, vile, infida e degna solo del più profondo disprezzo; o il militarismo, parte fondamentale della forma mentis di intere generazioni e pilastro dei nazionalismi, assieme ad altre concezioni scioviniste nella cultura secolare. In questa sede non è possibile approfondire più di tanto un tema talmente vasto (che include certo questioni particolari come la Grande Guerra, la “Rivoluzione conservatrice” e lo spirito völkisch, la fascinazione di intellettuali come Heidegger e via dicendo), ma è bene riflettere su come il principio di esclusione sia stato, e stia in qualche modo tornando a essere, una caratteristica propria della nostra cultura.
Breve storia del Mein Kampf (1924-1945)
Nel novembre del 1923 Adolf Hitler, sulla scorta della Marcia su Roma dell’anno precedente, organizza un colpo di stato con una compagine di forze dell’estrema destra (NSDAP, Freikorps e altre sigle) che avrebbe dovuto partire da Monaco e arrivare sino a Berlino, ma la dura risposta della polizia bavarese lascia sul campo oltre una decina di morti e parecchi feriti. Hitler è arrestato. Al processo (febbraio 1924), ancorché sia accusato di alto tradimento, gli vengono riconosciute intenzioni onorevolmente patriottiche, per cui la condanna è di soli cinque anni, da scontarsi nel carcere di Landsberg. Qui, Hitler detta al suo segretario personale e compagno di cella, Rudolph Hess, la sua autobiografia, che costituirà il primo volume del Mein Kampf. Uno sfogo necessario, come lo definisce l’autore stesso, il cui scopo è di ricostruire le tracce di una sorta di “destino personale” nelle vicissitudini patite fino a quel momento, oltre che a mettere per iscritto le motivazioni profonde del progetto politico futuro. Titolo scelto da Hitler: Quattro anni e mezzo di battaglia contro le menzogne, la stupidità e la codardia; tra gli altri prigionieri vi è l’editore delle pubblicazioni del NSDAP, Max Amann, che consiglia vivamente di cambiare il titolo in un più commerciabile La mia battaglia4. Sin da subito il testo si presenta come una farraginosa mistura di ricordi biografici, elementi ideologici e opinioni personali, con cui dare l’idea di una lunga preparazione a quel “destino” di cui Hitler si sente investito. Lo stile lascia a desiderare, ma l’aggressività propria dell’oratoria di Hitler è ben presente e forte. L’obiettivo reale dell’opera, come ha sostenuto Joachim Fest, «non è quello di svelare verità, bensì di dare valido supporto intellettuale alla recente vocazione di dominio autocratico di Hitler, il quale si presentava nella duplice veste, da lui stesso celebrata in geniale commistione, di politico e programmatico insieme»5.
Dopo solo un anno di prigione Hitler è rilasciato, rimettendosi alla testa del suo partito e adottando una strategia legalitaria. Il NSDAP torna a crescere, nonostante il divieto di pubblici comizi; alla metà del 1925 l’autobiografia viene data alle stampe, con il sottotitolo di “Resoconto” (in altre traduzioni, “Rendiconto” o “Resa dei conti”) dalla casa editrice Franz Eher di Monaco. Questo, non senza una buona opera di revisione da parte di vari curatori, che ne snelliscono il testo contorto e affastellato per renderlo meno pesante. Il rafforzamento della posizione di Hitler all’interno del partito e la riorganizzazione paramilitare (con la fondazione delle SS, che affiancano le SA) sono coronate dalla pubblicazione del secondo volume, sottotitolato “Il movimento nazionalsocialista”, nel dicembre del 1926. Negli anni della Repubblica di Weimar, Mein Kampf non ottiene molto successo, né viene preso in considerazione dalla stampa più diffusa, se non per essere deriso come il delirio di un megalomane; ma dal 1930, complici gli effetti del crollo di Wall Street, l’opera assume sempre più i tratti di un “vangelo” politico, che fa breccia nel cuore della gioventù tedesca ed è propagandato con grande efficienza dalla Eher, dal Partito e da Hitler stesso, il quale ne ripropone e ne rafforza le idee nei suoi discorsi. L’ascesa al potere rende il Mein Kampf un testo fondamentale e obbligatorio per ogni tedesco, ne vengono commentati i passi e diffuse le tesi in opuscoli e circoli di cultura, fino a regalarne una copia a tutti i novelli sposi e a fornirne copie omaggio in quantità alle scuole, realizzandone persino copie in braille6; anche gli oppositori politici reputano prudente possederne un esemplare, così come tutte le biblioteche e le librerie. Unitamente alla condanna dell’arte “degenerata” e ai roghi pubblici di libri considerati contrari alla morale germanica, le tesi del Mein Kampf appiattiscono la cultura tedesca sull’ossessiva obbedienza all’ideologia del Partito7.
Le cifre di vendita sono chiare: se all’uscita, nel ’25, il massimo è di circa novemila copie in tutta la Germania (con tendenza a calare negli anni successivi), nel ’32 se ne vendono dieci volte tanto, e nel ’33, anno della nomina a cancelliere, si supera il milione di copie; si arriva a sei milioni nel 1940 e nel complesso, alla fine della guerra, il totale tocca i dieci milioni. Dall’iniziale prezzo di 12 marchi per il solo primo volume (il doppio del prezzo medio di un libro tedesco dell’epoca), si passa all’edizione popolare che riunisce i due volumi al prezzo di 8 marchi. Anche all’estero le vendite sono alte, con il testo tradotto in almeno sedici lingue8. In termini di diritti d’autore, Hitler percepisce dal 10 al 15%, e dopo la sua nomina a cancelliere diviene milionario9, tanto da poter rinunciare (con tranquillità e non senza approfittarne sul piano della propaganda) alla retribuzione della sua carica politica10.
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Note
1 V. Pinto, “Introduzione”, in A. Hitler, La mia battaglia, Vol. 1: Edizione critica, Free Ebrei, marzo 2017.
2 Ibid.
3 G. Galli, “Introduzione”, in Il “Mein Kampf” di Adolf Hitler. Le radici della barbarie nazista, Kaos Edizioni 2002. Ciononostante, l’ambasciata tedesca a Roma ha contestato questa edizione integrale, pur comprendendo e approvando le intenzioni della casa editrice; la successiva ristampa del 2006 presenta quindi un testo parziale, decurtato di alcuni passaggi per questioni di copyright.
4 K.P. Fischer, Storia della Germania nazista, Newton & Compton 2001.
5 J. Fest, Hitler. Una biografia, Garzanti 1999.
6 I. Kershaw, Hitler: 1886-1936, Bompiani 1999.
7 J.J. Chevallier, Le grandi opere del pensiero politico, Il Mulino 1998.
8 In Italia, La mia battaglia esce per l’editore Bompiani nel ’34, presentando il solo secondo volume, “Il movimento nazionalsocialista”, cui viene premessa una nota biografica che riassume il primo; è presente inoltre una prefazione scritta appositamente da Hitler e una avvertenza dell’editore sulla parzialità dell’opera. Con lo stringersi dei rapporti tra il regime fascista e quello nazista, nuove edizioni si succedono fino al ‘38 , quando Bompiani pubblica integralmente anche “Resoconto”, intitolandolo La mia vita.
9 W.L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einaudi 1990.
10 I. Kershaw, cit.