di Luigi Sposato

Sommario

  1. La questione giuridica
  2. La recente presa di posizione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro
  3. La posizione dell’INPS
  4. La convivenza di fatto quale condizione di diritto
  5. Natura del reddito da partecipazione all’impresa del convivente
  6. Prerogative interne alla convivenza e prerogative esterne a essa
  7. Conclusioni

1. La questione giuridica

Nel nostro ordinamento giuslavoristico, l’istituto dell’impresa familiare ha carattere residuale in quanto mira a coprire le situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto che non rientrino nell’archetipo del rapporto di lavoro subordinato, o per le quali non sia raggiunta la prova della subordinazione.

La collaborazione all’impresa familiare e il lavoro subordinato, pertanto, confinano il lavoro familiare gratuito in un’area estremamente limitata1.

I tre diversi fenomeni giuridici (lavoro familiare gratuito, collaborazione stabile all’impresa familiare, lavoro subordinato) godono di un differente trattamento previdenziale e assicurativo.

E difatti2:

a) in caso di lavoro familiare gratuito, che sia svolto in modo accidentale per un periodo inferiore ai 10 giorni all’anno, non è necessaria la comunicazione preventiva di assunzione; il familiare non deve essere iscritto alla relativa gestione previdenziale; il familiare non deve essere iscritto all’INAIL.

b) In caso di lavoro familiare gratuito, che sia svolto in modo occasionale per un periodo superiore ai 10 giorni all’anno ma inferiore ai 90 giorni (o a 720 ore), non è necessaria la comunicazione preventiva di assunzione; il coadiuvante familiare non deve essere iscritto alla relativa gestione previdenziale; ma dev’essere iscritto all’INAIL.

c) In caso di lavoro familiare svolto stabilmente, il coadiuvante familiare dev’essere iscritto alle relative gestioni previdenziali e assicurative, sebbene non sia necessaria la preventiva comunicazione di assunzione.

d) Qualora l’attività del familiare sia svolta in regime di subordinazione, la disciplina applicabile non presenta particolarità rispetto a quella propria dei rapporti di lavoro subordinati.

Nel novero dei ‘familiari’ sono inclusi il coniuge, i parenti e gli affini (entro un certo grado di parentela e di affinità che varia a seconda che si considerino le attività agricole, commerciali o artigianali).

Ma cosa succede nel caso di una stabile convivenza di fatto more uxorio?

2. La recente presa di posizione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro

La Direzione Centrale-Coordinamento Giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, in risposta a un quesito formulato dalla sede Territoriale di Cosenza, si è di recente pronunciata in merito alla possibilità di inquadrare il convivente more uxorio quale collaboratore o coadiuvante familiare3.

L’inquadramento avrebbe un impatto sulla disciplina applicabile in relazione a due differenti sistemi di norme: 1) le norme in materia di preventiva comunicazione di assunzione; 2) le norme in materia di requisiti per l’iscrizione previdenziale e assicurativa.

Sotto il primo profilo, peraltro, sono notevoli le ricadute pratiche di interesse ispettivo poiché il lavoro dei collaboratori e dei coadiuvanti non è soggetto alla comunicazione preventiva di assunzione e, dunque, è estraneo alla disciplina sulla sospensione dell’attività d’impresa e a quella sulla maxisanzione per lavoro ‘nero’4.

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro aderisce all’interpretazione restrittiva adottata dall’INPS, ritenendo prioritario garantire uniformità di disciplina in relazione ai due profili (quello ispettivo e quello previdenziale/assicurativo).

Allo stesso tempo, però, prende atto delle aperture della giurisprudenza, e non esclude futuri cambi rotta laddove questi orientamenti pretori si dovessero consolidare5.

L’INL, pertanto, “propende per la conferma delle istruzioni operative ad oggi vigenti6, impregiudicate difformi valutazioni che […] [si] dovranno effettuare alla luce della possibile evoluzione del quadro giurisprudenziale”7.

È interessante verificare, allora, se la tesi dell’INPS sia ancora adeguata alle aperture giurisprudenziali (già in atto), e se sia realmente coerente con il tessuto normativo da cui prende vita.

3. La posizione dell’INPS

L’INPS8 ritiene che il convivente di fatto non possa essere inquadrato, ai fini previdenziali, come collaboratore dell’impresa familiare o come coadiuvante dell’impresa familiare9.

La presa di posizione dell’INPS segue l’entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76, avente a oggetto la “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” (cd. “Legge Cirinnà”).

Ad avviso dell’ente previdenziale le “prestazioni [ndr: del convivente di fatto] saranno […] valutabili, in base alle disposizioni vigenti ed alle elaborazioni giurisprudenziali, al fine di individuare la tipologia di attività lavorativa che si adatti al caso concreto”.

La conclusione dell’INPS è retta da queste premesse argomentative:

  1. il convivente di fatto non ha lo status di parente o affine del titolare dell’impresa;
  2. il convivente di fatto non è contemplato dalle leggi istitutive delle gestioni autonome quale prestatore di lavoro soggetto ad obbligo assicurativo in qualità di collaboratore familiare;
  3. la legge 76/2017 non prevede alcuna equiparazione di status;
  4. inoltre, non estende al convivente la copertura previdenziale prevista per il familiare coadiutore.

La circolare ritiene priva di effetto, ai fini di un’eventuale equiparazione, anche l’introduzione dell’articolo 230ter c.c., recante la disciplina dei diritti del convivente, introdotto proprio dall’articolo 1, comma 46, della Cirinnà.

Sul punto, l’INPS afferma che se il legislatore avesse voluto attribuire al convivente di fatto gli stessi diritti di cui godono i familiari, “avrebbe utilizzato locuzioni idonee ad includere il convivente nella formulazione del predetto articolo e non avrebbe al contrario introdotto un nuovo articolo, che disciplina separatamente i diritti del convivente che presti attività in un’impresa familiare”10.

In ragione di ciò, l’INPS ritiene che “l’eventuale attribuzione di utili d’impresa al convivente di fatto, da parte del titolare, ai sensi del nuovo articolo 230ter, non abbia alcuna conseguenza in ordine all’insorgenza dell’obbligo contributivo del convivente alle gestioni autonome, mancando i necessari requisiti soggettivi, dati dal legame di parentela o affinità rispetto al titolare”.

4. La convivenza di fatto quale condizione di diritto

L’INPS, quindi, ritiene determinante la posizione che il legislatore avrebbe (a suo dire) assunto con l’emanazione della legge n.76/2016.

È opportuno, dunque, analizzare questa normativa per verificare che sostenga adeguatamente l’interpretazione restrittiva proposta dall’ente previdenziale.

La legge n.76/2017, nel comma 36 dell’articolo 1 prevede che “Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

Nel sistema di questa disciplina, dunque, le “convivenze di fatto” sono distinte dal “rapporto di coniugio” e dalle “unioni civili tra persone dello stesso sesso”11.

Il convivente di fatto è espressamente equiparato al coniuge:

  • nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario (comma 38)12
  • in caso di malattia o di ricovero, ai fini del diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate (comma 39);
  • nella disciplina concernete la forma della domanda di interdizione o inabilitazione, a sensi dell’art. 712 c.p.c. (comma 47);
  • ai sensi delle norme vigenti in materia di nomina del tutore, curatore o amministratore di sostegno (comma 48);
  • ai fini dell’individuazione del danno risarcibile per il caso di decesso prodotto dal fatto illecito di un terzo (comma 49)

Ciascun convivente di fatto, inoltre, ha espressamente la facoltà di nominare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati (comma 40)13:

  • in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute;
  • in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.

Al convivente di fatto, infine, sono espressamente attribuiti i seguenti diritti, tipici del coniuge:

  • diritto di continuare ad abitare nella stessa casa in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza (comma 42);
  • il diritto di succedergli nel contratto nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza (comma 44);
  • il diritto di far valere la convivenza di fatto come titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare (comma 45);
  • il diritto di opporre ai terzi un contratto di convivenza che regoli i rapporti patrimoniali della vita in comune, anche ai fini dell’opzione per il regime della comunione legale previsto per il rapporto di coniugio (comma 50);
  • il diritto a ricevere gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, per il caso di cessazione della convivenza (comma 65).14

Una prima considerazione: “sembra inoltre venuto meno il principio secondo il quale la convivenza origina un’unione di fatto in quanto anch’essa riceve ormai riconoscimento giuridico, quantunque con la produzione di effetti più limitati rispetto alle altre due”15.

Com’è possibile constatare dalla mera lettura delle norme, in alcuni casi il convivente di fatto è in ‘concorrenza’ col coniuge, poiché le prerogative che la legge attribuisce a entrambi, seppure variamente modulate, sono le medesime.

Tanto ciò è vero che, qualora la convivenza segua un rapporto di coniugio di uno dei conviventi, si determina una situazione di interferenza di disciplina16 che sarebbe impensabile se gli statuti – del coniuge e del convivente – fossero radicalmente diversi.

Ai fini del nostro ragionamento, infine, è di particolare interesse proprio la lettura dell’art. 230ter del codice civile.

L’articolo 230ter stabilisce che “al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.

Anche in questo caso, il legislatore segue la logica della modulazione dei diritti a parità di status, e non quella (sottesa alla posizione dell’INPS) della differenziazione dei diritti in ragione della distinzione di status.

E difatti il convivente di fatto è palesemente annoverato tra i partecipanti all’impresa familiare; anche se “non si considera titolo di partecipazione all’impresa l’avere svolto attività di lavoro nell’ambito della famiglia del titolare; inoltre non sono riconosciuti il diritto al mantenimento, il diritto di prelazione sull’azienda e di partecipazione alle decisioni straordinarie e di destinazione degli utili, riconosciuti agli altri familiari”17.

5. Natura del reddito da partecipazione all’impresa del convivente

L’Agenzia delle Entrate18 ritiene che il regime tributario dell’impresa familiare sia quello disciplinato dall’art. 5 del TUIR, anche nel caso in cui sia il convivente di fatto a partecipare agli utili.

La conclusione dell’Agenzia delle Entrate è retta da una premessa argomentativa, fondata essenzialmente sul tenore letterale dell’articolo 230ter.

L’Agenzia delle Entrate, difatti, ritiene che “il riferimento alla “partecipazione agli utili dell’impresa familiare” spettanti al convivente, contenuto nell’art. 230ter, consenta di applicare anche a questa fattispecie i principi generali che hanno portato alla collocazione dell’impresa familiare all’interno dell’articolo 5 del TUIR”.

Questo argomento conduce l’Agenzia delle Entrate anche a superare il dato contrario costituito dal richiamo espresso, all’interno del testo dell’articolo 5 TUIR, del solo articolo 230bis c.c. (e non anche dell’art. 230ter c.c.).

L’Agenzia delle Entrate si riporta, inoltre, alle indicazioni contenute nella Circolare del Ministero della Finanze del 19 dicembre 1976, n. 40, emanata al momento dell’entrata in vigore dell’articolo 230bis.

Alla luce della propria prassi consolidata, afferma che anche nel caso dell’articolo 230ter, il reddito non deve essere inteso come reddito prodotto in forma associata, ma come reddito prodotto dal titolare dell’impresa familiare.

Questo reddito prodotto dal titolare dell’impresa è fiscalmente imputato al convivente di fatto per trasparenza e a prescindere dall’effettivo conseguimento, in ragione della sua partecipazione agli utili.

Da un punto di vista fiscale, dunque, questo reddito è qualificato, per il titolare dell’impresa familiare, come reddito d’impresa; mentre, per il convivente di fatto, come reddito di partecipazione del collaboratore familiare19.

Com’è evidente, si tratta di un’argomentazione, uguale e contraria a quella dell’INPS, che incrina in partenza il valore dell’uniformità di disciplina, cui si ispira (giustamente) e con notevole spirito collaborativo la recente presa di posizione dell’INL.

6. Prerogative interne alla convivenza e prerogative esterne a essa

La Corte d’Appello di Catanzaro, Sez. lavoro, Sent., 15/03/2019, n. 16620 ha deciso una controversia in materia di impugnazione di un’ordinanza ingiunzione, emessa da una sede territoriale dell’ITL, basata sull’accertamento in via amministrativa del rapporto di lavoro subordinato tra l’odierna appellante e il suo convivente more uxorio.

La ricostruzione in fatto che emerge dalla narrativa restituisce una valutazione pretoria che contrasta apertamente con la tesi dell’INPS, e con la posizione adesiva oggi assunta dall’INL.

Il giudice di seconde cure conferma l’esito del giudizio di opposizione all’ordinanza ingiunzione in cui la titolare dell’impresa “è risultata pienamente vittoriosa, avendo ottenuto l’annullamento della suddetta in quanto il Tribunale ha accertato la correttezza della propria impostazione difensiva, secondo cui il rapporto intercorso con il convivente […] fosse di collaborazione familiare, e dunque non potesse essere qualificato in termini di subordinazione”21.

È opportuno rilevare, in prima approssimazione, che questa sentenza valuta la posizione del convivente in relazione a un terzo: ossia all’ente ispettivo che compie valutazioni esterne al rapporto di convivenza, connesse a una disciplina di rilievo pubblicistico.

Un diverso profilo – anche se strettamente correlato – è stato analizzato di recente dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con l’Ordinanza 24 gennaio 2023 n. 2121.

La Cassazione si è pronunciata in relazione a una fattispecie concernente lo svolgimento di attività lavorativa da parte di un convivente di fatto presso l’impresa dell’altro convivente.

La Sezione Lavoro ha rimesso alla Sezioni Unite la seguente questione di massima di particolare importanza: “se l’articolo 230bis c.c., comma 3, possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione dell’evoluzione dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi ori entata sia agli articoli 2, 3, 4 e 35 Cost. sia all’articolo 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l’applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità”.

Due dati significativi: 1) la pronuncia, in questo caso, attiene ai rapporti tra il convivente e il titolare dell’impresa (e, quindi, interni al rapporto di convivenza); 2) il periodo storico cui si riferisce la fattispecie concreta precede l’entrata in vigore dell’art. 230ter c.c.

La differenza non è di poco conto: la questione rimessa alle Sezioni Unite – e che, dunque, è controversa – non è se il convivente possa essere inquadrato come collaboratore (o coadiuvante) dopo l’entrata in vigore dell’art. 230ter ai fini ispettivi o previdenziali/assicurativi; ma se al convivente possano applicarsi, in relazione al titolare dell’impresa, tutte le prerogative previste dall’art. 230bis per il periodo di tempo in cui non vigevano neppure le tutele limitate poi introdotte dall’art. 230ter.

Non solo.

Il canone interpretativo adottato dall’INPS – per il quale se il legislatore avesse voluto estendere al convivente la disciplina della collaborazione familiare, allora l’avrebbe detto espressamente (ubi lex voluit, dixit) – non è quello cui fa ricorso la giurisprudenza in materie limitrofe alla nostra e di assoluto rilievo giuridico.

E difatti le Sezioni Unite penali hanno ritenuto che “Il fatto che con la legge del 2016 il legislatore nulla abbia previsto per le convivenze, ad eccezione di un tentativo di definizione e della equiparazione alle coppie coniugate per una serie di profili analiticamente elencati […] non può certo significare una implicita contrarietà alla possibilità di riconoscere una serie di diritti in favore delle convivenze more uxorio, né tanto meno alla estensibilità della scusante di cui all’art. 384 c.p., al convivente”22. Il legislatore ha avuto come obiettivo principale quello di disciplinare, con la l. 76, le situazioni riguardanti le unioni civili tra persone dello stesso sesso, avendo ben presente il percorso legislativo e giurisprudenziale che ha condotto verso una tendenziale equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio, e ferme restando le differenze di base delle due situazioni.

Inoltre, è stato considerato “illegittimo il provvedimento dell’Amministrazione che ha rigettato la richiesta di trasferimento, ex art. 398 del regolamento generale dell’Arma, per il ricongiungimento con la compagna convivente more uxorio motivato con riguardo alla sola circostanza – evidentemente ritenuta decisiva – della inesistenza di un’unione matrimoniale fra il militare e la compagna”23.

E ancora nella giurisprudenza penale si afferma un’esplicita equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio a proposito della valutazione della sussistenza dei requisiti per l’ammissione al gratuito patrocinio per i non abbienti24.

Infine, il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta, non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente “more uxorio”25.

7. Conclusioni

A confondere il dibattito sul tema che ci occupa è, da un canto, l’idea che la convivenza sia una condizione diversa dal coniugio, perché la prima atterebbe al ‘fatto’ e solo la seconda al ‘diritto’; e, dall’altro, la mancata percezione dei due fronti su cui opera la disciplina.

Convivenza e coniugio sono due condizioni di diritto, cui l’ordinamento correla prerogative medesime ma, in alcuni casi, diversamente modulate.

Le diversità è l’eccezione, però; perché la regola è retta dal criterio valoriale dell’estensione delle tutele.

La valutazione compiuta ai fini delle discipline pubblicistiche esterne al rapporto di convivenza – ispettive, previdenziali, assicurative -, dunque, dovrebbe radicarsi sull’unica disposizione palesemente giuslavoristica della legge n.76/2016: quella che ha introdotto nel codice civile l’articolo 230ter.

È di tutta evidenza che il convivente di fatto, ai sensi dell’art. 230ter, può svolgere nell’impresa dell’altro convivente un’attività lavorativa stabile che trova fonte: a) in un rapporto societario; oppure b) in un rapporto di lavoro subordinato; oppure c) in un rapporto che non è né di carattere societario né di tipo subordinato, ma che gli conferisce il diritto di partecipare agli utili dell’impresa.

Il dato letterale pare sufficientemente univoco: questo terzo rapporto, vista anche la collocazione sistematica della disposizione, non può che avere carattere autonomo e non può che coincidere – il rasoio di Occam ci conduce a questa conclusione logica – con quello di collaborazione all’impresa familiare.

I soggetti esterni al rapporto, dunque, non hanno interesse a valutare quali e quanti diritti siano esercitabili dal convivente rispetto al titolare dell’impresa perché il dato qualificatorio è che il convivente può lavorare e percepire un reddito, anche in assenza di subordinazione e di legami societari.

Se si parte da questo presupposto, la conseguenza non può che essere l’inquadramento nello schema sinallagmatico della compartecipazione familiare; ciò secondo la linea interpretativa pragmatica seguita dall’Agenzia delle Entrate.

In quest’ottica, diventa difficile ipotizzare che questo rapporto sia tale solo in caso di stabilità della prestazione, ma non laddove la prestazione lavorativa sia svolta in modo accidentale, discontinuo, oppure occasionale (secondo quanto indicato nelle citate circolari n.10478 e 14184 del 2013).

Conclusione necessitata è che, in tutti questi casi, non si dovrebbe verificare la sussistenza di una comunicazione di assunzione, non essendo il lavoro riconducibile al rapporto subordinato (salvo il caso in cui la subordinazione, al contrario, risulti provata).

Anche sul piano previdenziale ne dovrebbe conseguire l’attrazione di questa attività lavorativa nella disciplina delle collaborazioni familiari che ne costituisce il naturale alveo giuslavoristico; si dovrebbe procedere agli inquadramenti previdenziali e assicurativi, di conseguenza, in base a quanto stabilito con i documenti di prassi riferiti al coniuge che sia collaboratore o coadiuvante nell’impresa.

Queste conclusioni appaiono sorrette sia dalla lettera dell’art. 230ter sia dal sistema di valori che deve orientare l’azione dei giuristi pratici.

La Costituzione e le fonti sovranazionali, difatti, offrono tutele e garanzie a tutti gli ‘aggregati familiari’ (espressione questa usata più volte dalla Corte costituzionale); considerando di pari dignità sociale tutte le convivenze stabili, siano esse formalizzate o di mero fatto.

Esiste, quindi, un esteso sistema di tutele che si fonda – a prescindere da espresse indicazioni legislative – su valori costituzionali radicati nell’art. 2 Cost; come anche su valori sovranazionali quali di cui agli artt. 8 e 12 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, per come interpretate dalla Corte di Strasburgo. Di particolare significato, risulta il testo dell’art. 9 della Carta di Nizza che distingue esplicitamente il “diritto di sposarsi” dal “diritto di costituire una famiglia”. E così facendo conferma plasticamente la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio; scelta che viene riconosciuta e tutelata a prescindere della presenza di vincoli formali. La Consulta – in materia di permessi mensili retribuiti per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità – ha precisato che “la convivenza more uxorio rilevante va intesa come relazione che si fondi su una relazione affettiva, tipica del “rapporto familiare”, nell’ambito della platea dei valori solidaristici postulati dalle “aggregazioni” cui fa riferimento l’art. 2 Cost.: la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost.”26.

Sotto questo profilo, aderendo all’interpretazione proposta dell’INPS, ne abbiamo una serie di aporie che contrastano con il tessuto valoriale del nostro ordinamento (per come integrato anche dalle citate fonti sovranazionali). È coadiuvante familiare il coniuge separato e non ancora divorziato; ma non il convivente. È coadiuvante familiare il cugino di terzo grado del coniuge dell’imprenditore (ossia il figlio, del figlio di un fratello del nonno, del coniuge dell’imprenditore); ma non il convivente. Fino al paradosso per cui, a parità di mansioni routinarie svolte, il coniuge convivente è un coadiuvante, secondo la linea interpretativa che esclude presuntivamente la subordinazione; e il convivente non coniuge è un subordinato, secondo la tesi che esclude la collaborazione familiare. In definitiva: che il coniuge collabori (e gratis27), che il convivente lavori! Con buona pace dell’uniformità di disciplina.

***Preciso che le opinioni e le valutazioni espresse in questo articolo hanno carattere personale e non impegnano in alcun modo l’Ispettorato Nazionale del Lavoro. (N.d.A.)

Note

1 In termini, tra le molte, la recente Cass. n.11533/2020; nella giurisprudenza di merito, si veda Corte d’Appello Genova, Sez. lavoro, Sent., 11/03/2022, n. 49

2 Ministero del lavoro del 10 giugno 2013, n.10478 e del 5 agosto 2013, n.14184.

3 Risposta a quesito del 23 maggio 2023 n. 879

4 Cfr. cd. “Vademecum sulla maxisanzione per il lavoro sommerso” emanato il 19 aprile 2022 dell’INL

5 Peraltro, come ricorda l’INL, proprio di recente la Sezione Lavoro ha sollecitato sul punto l’intervento delle Sezioni Unite.

6 Il riferimento è alle citate circolari del Ministero del lavoro del 2013 (sotto nota 2), e alla circolare dell’INPS illustrata nel prossimo paragrafo.

7 Così nella risposta al quesito n.879/2023.

8 Circolare 31 marzo 2017 n. 66.

9 In generale sull’impresa familiare, si veda L. Balestra, Percorsi di giurisprudenza – L’impresa familiare, in

Giurisprudenza Italiana, n. 5, 2023, p. 1172.

10 Così nel testo della circolare n.66/2017.

11 Cfr. S. Patti, La famiglia: dall’isola, all’arcipelago?, in Rivista di Diritto Civile, n. 3, 2022, p. 507; A. Spadafora, La “nuova” autonomia privata familiare tra norma sostanziale e norma processuale, in Famiglia e Diritto, n. 2, 2023, p. 177.

12 Cfr. Cass. pen. Sez. I Sent., 14 settembre 2021, n. 4641 con nota di A. Nataloni, La definizione di “convivente” ai fini della fruizione dei colloqui con il detenuto, in Diritto Penale e Processo, n. 7, 2022, p. 919 .

13 Questa disposizione è stata, in parte, superata dalla legge sulle direttive anticipate di trattamento, che regola la nomina del fiduciario: art. 4, l. 22 dicembre 2017, n. 219, per il quale il fiduciario può essere scelto liberamente dall’interessato, anche al di fuori della cerchia familiare.

14 Fra le disposizioni normative espressamente riferite ai conviventi devono poi menzionarsi, per la loro oggettiva rilevanza, quelle che consentono: di ammettere la coppia non coniugata ad avvalersi della procreazione assistita (L. 15 febbraio 2004, n. 40, art. 5); di astenersi dal rendere dichiarazioni nel processo penale (art. 199 c.p.p., comma 3, per il convivente dell’imputato); di presentare domanda di grazia al Presidente della Repubblica in favore del condannato (art. 681 c.p.p.). Nella medesima linea vanno altresì richiamate, a mero titolo esemplificativo, le disposizioni normative che riguardano la possibilità di adottare ordini di protezione contro gli abusi familiari, pur se commessi da conviventi o in danno di conviventi (L. 4 aprile 2001, n. 154); quella che prevede la rilevanza del periodo di mera convivenza ai fini della verificazione della stabilità della coppia in vista dell’adozione (L. n. 149 del 2001, art. 6); quelle, infine, dettate dal legislatore in tema di disciplina dei congedi parentali (L. n. 53 del 2000; D.Lgs. n. 151 del 2001) e di assicurazione sulla responsabilità civile (L. n. 209 del 2005, ex art. 129, comma 2, lett. b)).

15 Così T. Auletta, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia? (l. 20 maggio 2016, n. 76), in Le Nuove Leggi Civili Commentate, n. 3, 2016, p. 367.

16 Cfr. M. Cinque, Coniugio e convivenza di fatto: quali interferenze?, in Rivista di Diritto Civile, n. 2, 1 marzo 2023, p. 236.

17 Così sempre Auletta cit.; cfr. [87] Cfr. C. M. Bianca, Diritto civile, II, 1, La famiglia, Milano, 2014, p. 505 per il quale il convivente poteva essere annoverato tra i partecipanti all’impresa familiare in via interpretativa, prim’ancora che la nuova disposizione entrasse in vigore.

18 Risoluzione del 26 ottobre 2017, n.134/E.

19 Per una posizione critica alla ricostruzione dell’AE, si veda Turchi, Unione civile, convivenze di fatto e imposizione reddituale, in Rassegna Tributaria, n. 3, 2021, p. 611.

20 La sentenza di primo grado n.624/2017, emessa dal Tribunale di Crotone, è inedita.

21 La sentenza è anch’essa inedita ma reperibile sulle principali banche dati.

22 Cass. pen., Sez. Unite, Sent., (data ud. 26/11/2020) 17/03/2021, n. 10381.

23 Cons. Stato, Sez. IV, 17/06/2020, n. 3896.

24 Tra le tante, Corte di Cassazione n. 15715 del 20/03/2015; Corte di Cassazioni n. 44121 del 20/09/2012.

25 Tra le tante, Corte di Cassazione n. 12278 del 07/06/2011; Corte di Cassazione n. 23725 del 16/09/2008; Corte di Cassazione n. 7128 del 21/03/2013.

26 Corte cost., 23/09/2016, n. 213.

27 L’INPS ritiene, con presa di posizione estesa ovviamente anche al coniuge, che “nell’ipotesi di prestazioni di lavoro tra parenti e affini conviventi, in virtù del vincolo che lega i soggetti coinvolti e della relativa comunione di interessi, la prestazione lavorativa si presume a titolo gratuito”, così nel recente Messaggio n.2819 del 14 luglio 2022 .

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