di Marco Ferrari

Sommario

  • 40 anni di trasformazione
  • Fasi dell’internazionalizzazione
  • Mutamenti di struttura
  • Idee radicali e questione cinese

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Quando si è cominciato a parlare di globalizzazione, alcuni anni fa, non erano in molti ad aver chiaro di cosa si trattasse. Sembrava dover essere un evento preciso, che dovesse accadere da un momento all’altro, che avesse una data; in cosa consistesse, poi, non si sapeva. Un cambiamento dello stile di vita? Un cambiamento nelle istituzioni? La fine di un mondo vecchio e l’inizio di uno nuovo? In ogni caso, il concetto di globalizzazione era circondato da una “aura” mitica. Molte le aspettative, le ipotesi, la curiosità e soprattutto la confusione.

Confusione che continua ancora oggi, pur essendo di fatto un mondo globalizzato: si usano spesso termini, certamente simili, come “internazionalizzazione” o “mondializzazione” dando per scontato che siano sinonimi; in realtà sono concetti differenti, talvolta opposti.

Una chiara ed esauriente delucidazione su questo discorso è stata fornita dal prof. Bruno Amoroso dell’Università di Roskilde, Danimarca, nel corso di una conferenza tenutasi il 21 maggio 2008 presso l’Aula Seminari del Dipartimento di Economia e Statistica dell’UNICAL; il titolo, Globalizzazione ed Economia Mondo, sottolinea già la differenza che intercorre tra il concetto apparentemente ampio di globalizzazione e quello invece poco conosciuto di “economia mondo”, su cui è specializzato il prof. Amoroso e che rappresenta le aree geopolitiche in cui un sistema di relazioni economiche ha assunto caratteri peculiari, dovuti ai soggetti che vi operano (ad esempio, il Mediterraneo è un’area di economia mondo).

L’interessante conferenza ha offerto un panorama integrale sul processo della globalizzazione capitalistica dal 1970 al 2008. E’ infatti in questo lungo arco di tempo che l’economia mondiale ha assunto i caratteri odierni, come schematizzato di seguito.

 

40 anni di trasformazione

Fino agli anni Sessanta il capitalismo liberale era stato caratterizzato dal fordismo, ossia dall’organizzazione industriale basata sulla catena di montaggio e la produzione di massa di beni di consumo, che creava un diffuso benessere, anche se in modo fortemente diseguale tra le classi sociali; a livello internazionale ciò si esprimeva nell’acquisto delle risorse dai Paesi poveri, il cui guadagno era molto più lento e minore, ma che potevano comunque considerarsi produttivi.

Questo sistema è andato in crisi negli anni Settanta aprendo la strada al post-fordismo, una incognita dagli esiti difficili da prevedere; con la sua ascesa è scomparso il Welfare State, lo “stato del benessere” che in vari modi garantiva una certa sicurezza sociale attraverso la redistribuzione della ricchezza prodotta, in forma di servizi e tutele (conquistati, comunque, con dure lotte sociali).

Passando dalla produzione della catena di montaggio ad una sorta di specializzazione flessibile dei soggetti produttori (cioè una frammentazione della produzione, non più industriale in senso massivo), si arriva al monetarismo degli anni Ottanta, influenzato dalle teorie di J.M. Keynes, in cui è la moneta ad assumere un ruolo centrale nell’economia, diventata così incerta da ritrovare potere d’acquisto solo nella moneta stessa (Keynes la definisce “uno scudo contro l’incertezza”), che perciò non è più solo una intermediaria negli scambi; allo stesso tempo si fa strada il neo-liberismo, caratterizzato dalla spinta verso l’esclusione dello Stato dal processo economico per lasciare completa libertà d’azione ad individui ed imprese nel mercato. Nasce il Workfare State, la “società del lavoro”. L’attenzione si sposta dalla produzione al management.

E’ quindi nel corso degli anni Ottanta che la crescita rallenta per i Paesi non industrializzati: il capitalismo compie una svolta epocale concentrandosi nei Paesi ricchi del consumo, lasciando sempre più indietro quello sviluppo diseguale per tutti, dovuto all’acquisto delle risorse e delle materie prime che lo aveva caratterizzato nella fase industriale.

Questa concentrazione porta nella decade dei Novanta al cosiddetto capitalismo triadico, ossia allo spostamento di tutto l’asse economico mondiale sugli interessi di tre centri di potere (U.S.A., Europa ed Estremo Oriente) che attuano gli scambi al loro interno, abbandonando mercati come l’America Latina; la crescita dei Paesi poveri si blocca, mentre la società del lavoro è affiancata dalla società della conoscenza, in cui le risorse più valorizzate sono quelle del “saper fare” (know how). In questo modo la minoranza di Paesi ricchi diventa sempre più ricca, dando origine ad una sorta di apartheid globale che esclude il guadagno di paesi terzi, provocandone la decrescita.

Si arriva quindi agli anni recenti. La globalizzazione è ormai in una fase avanzata, che vede negli U.S.A. il principale attore; la leadership statunitense è sostanzialmente conservatrice, nel senso di difesa della concentrazione economica nei mercati potenti: tale difesa si risolve nella militarizzazione dell’economia, con destabilizzazione di zone competitive e controllo sull’accesso alla conoscenza. Il Workfare State è rimpiazzato dal Warfare State, lo “stato di guerra”.

Con tutta evidenza, i conflitti che si sono succeduti e che potrebbero accendersi in seguito, sia nell’area mediorientale (Iraq, Iran) sia estremorientale (Corea del Nord), fanno parte della strategia di accerchiamento e destabilizzazione del nuovo grande competitore mondiale, la Repubblica Popolare Cinese (che però è scollegata dai processi di globalizzazione, come vedremo in seguito). Parole chiave di questa nuova fase della globalizzazione sono perciò la geopolitica e la geoeconomia.

 

Fasi dell’internazionalizzazione

Fin qui abbiamo visto la storia della globalizzazione capitalistica nei suoi primi quaranta anni (1970-2008). Tornando al dubbio iniziale, per distinguere questo concetto da quelli di internazionalizzazione, universalizzazione e mondializzazione occorre tener presente lo schema riportato di seguito.

Se si osserva l’evoluzione del sistema economico nel corso dei secoli, si può tracciare una linea ideale che passa attraverso vari stadi e modi di produzione fino al capitalismo degli ultimi due secoli; questa linea ideale è costante e segna lo sviluppo economico tra i Paesi del nord e quelli del sud del mondo. La tendenza è l’internazionalizzazione, cioè l’apertura dei rapporti economici tra tutti i Paesi in uno scambio alla pari.

Accanto ad essa si può tracciare la linea reale, che segna invece l’andamento ben diverso dello sviluppo in base ai dati storici. Si nota subito come la tendenza assuma una curvatura sempre più vicina ai Paesi del nord man mano che si avvicina all’internazionalizzazione; il suo culmine è la globalizzazione, un’apertura monocentrista dei mercati mondiali a tutto vantaggio dei Paesi ricchi.

A questo processo che divarica sempre più la distanza tra nord e sud, si sono creati movimenti di resistenza con diverse caratteristiche accomunati dal tentativo di far riavvicinare la linea reale di sviluppo a quella ideale.

L’universalizzazione è un processo di resistenza non alternativa, che accetta cioè le premesse della globalizzazione, ma propugna correttivi e controlli per eliminare gli eccessi e reintrodurre una prospettiva di crescita per tutti. Di questa tendenza fanno parte i cosiddetti gruppi New Global, in contrapposizione al movimento No Global che invece si batte per una alternativa radicale ricercando una soluzione per lo sviluppo equo.

La curva verso la mondializzazione è quella che più si avvicina alla linea ideale. Questo processo è l’esatto contrario della globalizzazione: i rapporti di scambio tra i Paesi si basano sulla collaborazione tra le varie realtà del mondo, in cui ogni differenza è valorizzata ed è proposta come prodotto di scambio; anziché chiudersi nel monocentrismo di un pugno di Paesi per i cui interessi tutto è in funzione, la mondializzazione ricerca l’apertura al resto, la scomparsa di centri di potere economico, l’esaltazione delle differenti aree di economia-mondo in un interscambio che sia concretamente proficuo per tutti. Ciò naturalmente non implica la frammentazione, la divisione, al contrario necessita di rapporti più stretti tra i Paesi, ma non in vie gerarchiche o in squilibrio.

 

Mutamenti di struttura

Un aspetto da non trascurare riguarda i cambiamenti che si sono verificati nell’impresa capitalista in accordo all’evoluzione dei mercati, assieme a mutamenti di carattere sociale.

Ogni impresa ha in sé quattro funzioni: produzione; finanza; management; distribuzione.

L’impresa locale, che quindi opera in un territorio ristretto e delineato, ha tutte queste funzioni internalizzate; può essere a livello familiare o superiore, comunque ha il controllo di ogni aspetto della sua attività e perciò si occupa della realizzazione e della qualità dei prodotti, della loro diffusione, degli investimenti ecc. per ottenere il profitto.

L’impresa nazionale ed internazionale esternalizza la distribuzione e la finanza, occupandosi solo della produzione e del management. Affida cioè a terzi la diffusione dei propri prodotti e la cura dei movimenti finanziari; l’espansione di questo tipo di impresa è solitamente all’interno di un mercato determinato, ma se produce anche su mercati differenti essa diventa multinazionale.

Questi due primi tipi di impresa sono legati al territorio e vincolati alle sue possibilità; i prodotti sono spesso essi stessi una garanzia sull’origine e la qualità, diventando “marchi” della nazionalità d’origine.

I mutamenti più importanti nell’impresa si sono verificati con l’esternalizzazione di produzione e distribuzione ed il rientro della finanza: è l’impresa transnazionale, che si concentra su gestione e investimenti, cura del marchio, pubblicità, relazioni economiche in genere, delegando a terzi sia la produzione che la diffusione dei propri prodotti; è il caso di quelle imprese che pur essendo americane, o francesi, o italiane ecc. hanno i loro stabilimenti di produzione in Paesi come Taiwan, Myanmar, Thailandia e altri dove la manodopera è a basso costo, la tassazione è leggera e i controlli più benevoli (oltre alla virtuale assenza di sindacati). Si introduce così la separazione tra territorio, sistemi produttivi, istituzioni e popolazione.

Dato il monocentrismo della globalizzazione, come abbiamo visto, il profitto non dipende più dall’allargamento del mercato bensì dall’innovazione dei prodotti, rimanendo sulla stessa base di consumo: oltre ad essere il contrario di quel circolo “virtuoso” del capitalismo fordista, questo processo ha naturalmente portato mutamenti anche nella struttura delle classi sociali; ciò che oggi si può considerare borghesia, intesa come classe produttrice che detiene il potere economico, si è sviluppata in due livelli dagli interessi spesso contrastanti.

La borghesia globale punta sulla modernizzazione in ogni campo di profitto, il che implica scontri con le borghesie nazionali, legate a processi interni alle proprie nazioni d’origine; le divisioni politiche tra destra e sinistra si formano appunto su questi processi, incentivando così due destre e due sinistre, di cui una coppia si riferisce agli interessi della borghesia globale (ed è, sostanzialmente, il dualismo partitico americano che in varie forme si sta affermando anche in Europa), mentre l’altra è strettamente legata al territorio e alla popolazione, quindi agli interessi locali della borghesia nazionale, dando vita a una destra e una sinistra sociali. Un esempio dello scontro tra queste due borghesie può essere la ben nota diatriba sulla realizzazione del tratto italiano del Treno ad Alta Velocità (TAV), in cui è evidente la separazione tra l’istituzione governativa e le rappresentanze territoriali, con alleanze trasversali in entrambi i campi.

Ma la borghesia globale non è l’unico gruppo ad essersi slegato dal territorio. Per un verso totalmente differente, la rivolta islamica sfociata nel terrorismo è una reazione di opposizione virtuale, di rete, senza cioè stati-nazione cui appoggiarsi. La stessa Al-Qaeda non ha organismi centrali, comprendendo in sé una serie di gruppi minori in certo modo collegati, ma non inquadrati in strutture organizzate.

 

Idee radicali e questione cinese

A conclusione della conferenza, le consuete domande hanno riguardato le posizioni di Antonio Negri e Serge Latouche, che propongono interpretazioni e soluzioni radicali per la globalizzazione.

Secondo il prof. Amoroso, le categorie di impero e moltitudine che Negri presenta delineano una contrapposizione in cui, promuovendo la rivalsa della moltitudine sull’impero, si accettano però le premesse della globalizzazione risolvendo la questione in un ribaltamento poco chiaro dei ruoli, per cui una massa indistinta dovrebbe in qualche modo prendere il potere in generale; il dubbio è perciò su cosa dovrebbe fare questa cosiddetta moltitudine a capo di un impero senza confini né contorni, e a cosa ciò porterebbe.

Il concetto di decrescita di Latouche è altrettanto confuso: una decrescita è già in atto proprio a causa della globalizzazione, di molti a vantaggio di pochi; per comprendere meglio l’idea del professore francese sarebbe più adatto dire “crescita felice”, ossia compatibile con lo sfruttamento delle risorse. Il punto non è l’arretramento, piuttosto la fine degli eccessi (ad esempio, una o due automobili per famiglia anziché tre o quattro).

Nelle considerazioni finali non è mancata una analisi del fenomeno cinese.

La straordinaria evoluzione della Cina, che è riuscita a fare in 25 anni ciò che l’Europa ha fatto in 250, non c’entra con la globalizzazione. Le sue politiche non si basano sul pagamento delle materie prime come per l’Occidente, bensì sullo scambio di risorse: se la Cina ha bisogno di petrolio o gas naturale mentre il Paese fornitore ha bisogno di ospedali o strade, o basi militari ecc., la Cina manda i suoi ingegneri per costruire quel che serve in cambio dei barili. Questo modo di fare elimina la finanza dai rapporti internazionali, tanto che si sta diffondendo come modello in altri mercati tagliati fuori dal circolo dei ricchi, come il Mercosud in America Latina dove il Cile può scambiare mandrie bovine con benzina della Venezuela.

Il prof. Amoroso ha poi ribadito che, nonostante le grandi riforme economiche, la Cina è pur sempre uno stato comunista; eliminato infatti il maoismo come piano di sviluppo, il nuovo capitalismo cinese (il famoso “capitalismo rosso”) si caratterizza per il suo controllo pianificato a livello nazionale come progetto per l’intera società: è quindi lo Stato a selezionare, per esempio, le imprese straniere per la costruzione di centrali idroelettriche, che devono perciò garantire uno standard qualitativo sulla base di comprovate capacità, senza le quali queste imprese non possono nemmeno entrare nel Paese.

La Repubblica Popolare Cinese è comunque una nazione immensa e sovrappopolata che conserva al suo interno una multinazionalità molto variegata, il cui unico collante è il maoismo riveduto e corretto in senso identitario e nazionalista (del cui valore si è avuta prova in recenti proteste della comunità cinese di Milano, in cui sono apparse bandiere rosse stellate simbolo di una madrepatria da cui, nelle decadi passate, si fuggiva). La potenza in crescita esponenziale del Paese e la sua ricerca di spazio e identità sono elementi, per quanto a rischio di stimolare debolezze come le latenti divisioni interne, che rendono il conflitto con l’Occidente, in particolar modo gli Stati Uniti, inevitabile.

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