di Marco Ferrari
Le recenti rivelazioni sull’idea della Shoah come «autoannientamento degli ebrei», scaturite dagli inediti Quaderni neri di Martin Heidegger, hanno nuovamente suscitato tra gli studiosi di questo filosofo non poche perplessità [1]. Il dibattito sui rapporti tra Heidegger e il regime hitleriano va avanti da decenni; le posizioni in merito hanno oscillato tra chi nega in varie maniere un suo concreto antisemitismo [2] e chi ritiene che Heidegger, per quanto a modo suo, avesse aderito in maniera del tutto convinta al regime nazista [3]. Le rivelazioni sull’atteggiamento filosofico heideggeriano nei confronti della Shoah sembrano eliminare parecchi dubbi in merito, suscitandone almeno un altro, fondamentale: quale rapporto intercorre tra il particolare atteggiamento di Heidegger sulle sorti dell’ebraismo e il resto delle sue visioni filosofiche?
L’opera di Heidegger è divenuta molto influente negli ambiti accademici. Non si può fare a meno di confrontarsi con il suo pensiero, costantemente citato in interventi, articoli e saggi, poiché le critiche del filosofo all’era moderna trovano vasta eco nei problemi peculiari della globalizzazione: dall’annullamento dell’individuo nei numeri statistici, alla preponderanza della tecnica non solo in ambito pratico, quanto soprattutto in ambito culturale ed etico. Le sue critiche alla modernità vengono ormai preferite a quelle della Scuola di Francoforte [4] , ritenute sorpassate perché legate alla cultura e all’epoca in cui furono sviluppate. Il fatto è che l’epoca in questione fu grosso modo la stessa di Heidegger, dagli anni Trenta agli anni Sessanta, con la visione di grandi contrapposizioni tra regimi totalitari e democrazie capitalistiche, la nascita e lo sviluppo sempre più veloce della società di massa e dei suoi elementi massificanti. La differenza sta nella diversa prospettiva intellettuale: esistenzialistico-ontologica nel caso di Heidegger, quindi concentrata sulla vita dell’uomo, sul suo esserci e sulla natura dell’Essere; marxista nel caso della Scuola, o forse meglio marxiana, cioè non prettamente politica, ma comunque incentrata sull’analisi materialistica dei rapporti sociali, politici, culturali e psicologici che condizionano gli individui. Se la Scuola di Francoforte è perciò legata all’analisi di una configurazione sociale che oggi per molti versi è mutata, la critica heideggeriana assume una connotazione atemporale, valida al di là delle epoche contingenti, perché fa riferimento alla natura umana senza passare per il vaglio dei contesti sociali, politici ed economici. Ciò vuol dire che, nonostante nei primi tempi quella compromissione politica sia costata al pensatore un certo ostracismo, oggi Heidegger è di fatto l’autore più studiato della filosofia contemporanea.
Non stupisce allora che la sua adesione al nazismo generi qualche mal di pancia, talvolta accompagnato da tentativi piuttosto goffi di giustificarlo. In passato io stesso, con tutta l’ingenuità di uno studente di filosofia, avevo creduto di comprendere il senso dell’adesione di Heidegger attraverso il suo pensiero: tutto ciò che riguarda il quotidiano, il contingente, rimanda alla dimensione inautentica dell’esistenza, quella in cui l’uomo usa le cose, vive i fatti e spesso riduce il suo essere a questo piano meramente fattuale, concreto, limitato dall’individualità del momento e dal vuoto che spinge a trovare un’utilità nelle cose; al contrario, l’esistenza autentica si ha nel momento in cui dal contingente, dall’immediato e dal limitato, l’uomo ascende al piano ontologico, propriamente esistenziale, in cui ricerca il senso delle cose, del loro essere in sé. Ossia, la vita quotidiana è legata alle cose materiali, e ridursi solo a queste impoverisce l’uomo; elevarsi dalle cose del mondo verso il piano della ricerca del senso delle cose, è invece la vera autentica esistenza umana. Da questo punto di vista, aderire al regime di turno, sia esso nazista o di qualsiasi altra natura politica, non ha importanza in sé, è solo un momento contingente, un’accettazione passiva delle cose mondane; o magari un uso momentaneo di qualcosa che influisce sul quotidiano, un “mezzo” per soddisfare uno scopo (in questo caso, quello di continuare a insegnare e a produrre filosofia), mentre sul piano esistenziale autentico non implica alcun valore, alcuna accettazione intellettuale o entusiastica presa di posizione. Una interpretazione del genere, per quanto poco elaborata, forse può trovare appigli nella coerenza del suo pensiero. Ma ho potuto presto constatare la presenza di scogli ardui da evitare; innanzitutto, un dubbio: se Heidegger, nel dopoguerra, si fosse ritrovato nella DDR, avrebbe aderito in maniera altrettanto opportunistica allo stalinismo? Poi, soprattutto, l’evidente politicizzazione di alcuni scritti più o meno noti del filosofo, per esempio il discorso del 1933 da rettore universitario L’autoaffermazione dell’università tedesca [5], forse il testo più discusso dagli studiosi in merito a questa vicenda, uno scritto tra le sue opere note in cui il supporto al nazismo è inequivocabile.
Nel saggio introduttivo [6], molto puntuale, di Carlo Angelino all’edizione italiana dell’Autoaffermazione, vengono individuate tre fasi nel rapporto tra Heidegger e il nazionalsocialismo. La prima è l’avvicinamento, gravido di aspettative, a una rivoluzione della società e dello spirito: il fallimento della Repubblica di Weimar apre al pericolo del bolscevismo, cui solo il movimento di Hitler sembra in grado di opporsi; e la morte del liberalismo ottocentesco lascia un vuoto spirituale cui il nazionalsocialismo offre un’alternativa di valore, non nichilista, forte della cultura conservatrice di autori come Schmitt e Jünger, condivisa dal filosofo, e di istanze quali il pangermanesimo, lo spirito völkisch e il riscatto nazionale. La seconda fase è la partecipazione, l’attivo supporto alla fondazione di un nuovo stato tramite la vita culturale, in modo simile a Giovanni Gentile nell’Italia fascista, ossia come compimento di un destino superiore per la salvezza della Germania tanto dal comunismo russo, quanto dal liberalismo americano. A questa fase appartengono gli interventi pubblici di Heidegger, gli scritti e i discorsi “militanti” di cui l’Autoaffermazione è la punta di diamante e nei quali la figura di Hitler viene presentata come il perno della fede nella rivoluzione nazionalsocialista. In effetti, è il Führer ciò che sembra colpire di più Heidegger, il suo ruolo di fondatore dello Stato assimilabile al lavoro di un artista, che assurge a medium per l’incarnazione fenomenica dell’Essere. Hitler costruisce il nuovo Stato nazionale non solo con le misure contingenti della politica, ma con l’introduzione nella vita spirituale del paese di un movimento antinichilistico. Heidegger come “hitlerista”, dunque, piuttosto che nazista; eppure anche il nazionalsocialismo in quanto dottrina ha un suo valore rieducativo per lo spirito della comunità, quale potenza riformatrice del popolo, movimento prima che partito. Qui la nozione di “socialismo” viene slegata da qualsiasi ambito di rappresentanza di classe, o di mutamento dei parametri economici, e rivalutata come ordine gerarchico interclassista per la difesa e la cura di modelli e norme tipiche della cultura nazionale tedesca [7]. Infine, la terza fase è quella del distacco. Ed è quella che oggi pone più problemi, poiché dopo un così lungo dibattito e l’avvicendarsi di interpretazioni sulle ambiguità di Heidegger nel dopoguerra, ciò che sembrava assodato è stato nuovamente messo in discussione. Già nel 1936, nei contenuti dei corsi universitari del filosofo, sono presenti elementi che indicano un distacco e una disillusione nei confronti della figura del Führer, peraltro non espliciti, ma sufficienti per attrarsi l’ostilità e i sospetti di alcuni rappresentanti del regime, anche riguardo a scelte amministrative e didattiche interne all’università. A partire da questo momento di difficoltà, Heidegger modifica gradualmente la sua visione del nazionalsocialismo, passa a vederne i risvolti nichilistici e i pericoli di una catastrofe annunciata. Da movimento rivoluzionario spirituale, il nazismo diventa realizzazione di un nichilismo incondizionato, forma estrema della potenza tecnica moderna che soverchia e sottomette l’uomo. Ossia, si trasforma in ciò che, dal punto di vista di Heidegger, è il suo contrario. Il nichilismo incondizionato della potenza è il cuore dell’analisi ermeneutico-fenomenologica che negli anni Cinquanta il filosofo farà del totalitarismo, in cui rientrano tanto il nazismo quanto il comunismo, entrambi espressione di una volontà di potenza che incide sull’Essere asservendolo alla “macchinazione”, trasformandolo in qualcosa privo di valore, infinitamente manipolabile. E dal punto di vista politico, o meglio della vita pubblica di un popolo, la potenza si realizza attraverso il dominio della violenza, giustificato in vari momenti da ideali metafisici e scopi supremi; ma in realtà la potenza è amorale, fine a se stessa, nichilistica in ogni sua manifestazione, perciò annienta tutto quel che investe, fino all’estrema conseguenza dello sterminio. Questa analisi è, in tutta evidenza, una denuncia del nazismo e dei suoi esiti, come lo è del comunismo, ma anche del mondo moderno nella sua totalità, dato che in conclusione tutta la storia culturale dell’Occidente, a partire dalla metafisica, converge nel nichilismo e perciò nell’annientamento.
Ora, con la pubblicazione in corso dei Quaderni neri [8], la posizione di Trawny per cui non possano più sussistere dubbi sull’adesione di Heidegger al nazismo [9] acquista una nuova prospettiva: quale distacco è avvenuto realmente tra il filosofo e il regime, se nelle annotazioni private una parte fondamentale dell’analisi dello sterminio è imperniata non sui carnefici nichilisti, concretamente responsabili, bensì sulle vittime del totalitarismo? Il dibattito è ancora in corso, i testi devono ancora essere compresi, valutati, interpretati; ma dagli articoli scritti in merito dalla prof.ssa Donatella Di Cesare sul Corriere della Sera [10], si evince in modo molto chiaro che Heidegger aveva tenuto per sé un’analisi filosofica spaventosa nelle sue implicazioni e persino nel linguaggio. Lo sterminio nazista degli ebrei sarebbe stato un autoannientamento degli ebrei stessi: essendo l’Ebreo, in quanto tale, un agente della modernità (ossia il fautore culturale, morale e materiale dell’evoluzione verso la modernità tecnocratica, mercantilistica e massificante), è egli stesso il responsabile per la modernizzazione tecnica della produzione di morte, dell’estensione del processo produttivo alla eliminazione fisica degli individui. Il modernismo tecnico del nazismo sarebbe quindi un’espressione pratica di quella modernità spinta in avanti dagli ebrei, contro cui però il nazismo si è battuto, in nome di una riconquista spirituale premoderna dell’esistenza umana. Di conseguenza, il vero crimine di guerra è stato commesso dagli Alleati, i quali hanno fermato il regime nel suo intento di liberare l’uomo dal dominio della tecnica e dell’esistenza inautentica. La possibile contraddizione tra gli intenti del nazismo e l’uso della tecnica produttiva moderna sviluppata dal “nemico ebraico”, sembra passare inosservata nelle annotazioni dei Quaderni neri; o forse si risolve nell’idea succitata dell’uso momentaneo di qualcosa che si rivela, in realtà, inessenziale e inautentico.
I termini del dibattito, è bene ripeterlo, sono ancora in evoluzione, per quanto già delineati in base a queste rivelazioni. Personalmente, ritengo che il punto centrale sia il grado di coerenza filosofica intercorrente tra queste analisi sulla Shoah e il pensiero precedente, ovvero quanto il nazismo sia in effetti connaturato al pensiero di Heidegger, al di là di momenti “imbarazzanti” di vita quotidiana. Dobbiamo chiederci: il pensiero di Heidegger sull’esistenza e sull’Essere può sfociare nel nazismo? Può cioè avere una naturale conseguenza in un modo di pensare autoritario, illiberale e antistorico, nonostante la sua valenza attuale di critica agli aspetti autoritari e illiberali del dominio tecnocratico, scaturito dalla globalizzazione? Il tema è complesso e non si può pretendere di esaurirlo in poche righe; tuttavia credo, dal mio modesto punto di vista, di poter concludere con una relativa convinzione. La posizione di Heidegger non può essere ridotta alla contingenza dell’evento Shoah, ossia a una presa di posizione contro quegli ebrei particolari in quanto “nemici” dello stato e del popolo tedesco, come fanno gli antisemiti comuni. La sua è una visione ontologica, per cui l’Ebreo agente della modernizzazione che causa la sua stessa morte è una figura metafisica, un archetipo se si vuole, attraverso cui si spiega l’essenza del mondo moderno, di cui il campo di sterminio nazista è l’apoteosi, il culmine del processo industriale applicato alla morte. Ciò può rendere il nazismo heideggeriano ancor più profondo e radicato, indistinguibile dal resto del suo pensiero che sembra rivelarsi, in tal modo, sostanzialmente reazionario.
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Note
[1] Lettura imprescindibile: Donatella di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I Quaderni neri, Bollati Boringhieri 2014.
[2] Oltre al figlio Hermann, che nega l’antisemitismo del padre, Hadrien France-Lanord rileva che nelle sue opere non ci sono frasi propriamente antisemite né razziste (cfr. voce Antisémitisme in Le Dictionnaire Martin Heidegger, Editions du Cerf 2013); inoltre diversi allievi, come Gadamer, ne hanno preso le difese.
[3] Di questo parere, ognuno con prospettive diverse, sono Peter Trawny, curatore dell’edizione dei “quaderni neri”, per il quale l’adesione di Heidegger al nazismo è fuori di dubbio (cfr. Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, Bompiani 2015); Maurizio Ferraris, che sottolinea diversi elementi compatibili con l’ideologia nazista (cfr. Manifesto del nuovo realismo, Laterza 2014); Donatella di Cesare, la quale si interroga sul ruolo delle affermazioni antisemite nell’economia delle opere del filosofo (cit.). Personalmente, propendo per queste posizioni.
[4] Possiamo riferirci almeno ai suoi esponenti principali, ovvero Adorno, Horkheimer, Marcuse e Fromm.
[5] Cfr. Heidegger M., L’autoaffermazione dell’università tedesca – Il rettorato 1933/34, Il Melangolo, Genova 2001 (1988). Sul retro è riportata una significativa citazione di Karl Löwith: «l’autoaffermazione dell’università tedesca è un discorso di elevato tenore filosofico e di grandi pretese, un piccolo capolavoro nella formulazione e nella composizione. Alla luce della filosofia è un’opera straordinariamente ambigua… e chi lo ascolta alla fine non sa se deve prendere in mano la silloge dei presocratici curata da Diels o marciare con le S.A.».
[6] Si veda il Poscritto 2001.
[7] Rifiutando il giusnaturalismo e quindi l’idea di un Stato liberale astrattamente connaturato alla natura umana in sé, Heidegger ritrova nel socialismo il terreno politico e spirituale di unità comunitaria, fondato sulla costruzione giuspositivista. In generale, il fatto che l’estrema destra abbia elementi socialisti nella sua visione corporativista e unitaria della società segna la natura conservatrice del socialismo nazionale. L’opposizione al capitalismo e al comunismo, l’idea di una “terza via” comunitaria e nazionalista, coniugano l’esigenza di autodeterminazione e affermazione identitaria con la soppressione degli antagonismi di classe e l’esclusione degli elementi considerati estranei, per la fondazione di una comunità omogenea e stabile. L’anticapitalismo di destra si caratterizza dunque come antimodernità, movimento regressivo e antistorico, di cui già Marx ed Engels avevano tracciato alcuni aspetti nel Manifesto del partito comunista (cfr. III. Letteratura socialista e comunista. 1 – Il socialismo reazionario).
[8] In Germania, a cura di Peter Trawny per l’editore Klostermann, come volume 97 delle Opere; in Italia, da Bompiani finora in due volumi, 1931/1938 e 1938/1939. Le note incriminate risalgono al periodo tra il 1942 e il 1948.
[9] Si veda il suo articolo del 4/7/2015 sul Corriere della Sera.
[10] Si vedano almeno il primo, del 8/2/2015 e il secondo, del 9/2/2015.