di Maria Concetta Falcone

La tematica della qualificazione del rapporto di lavoro negli anni ha assunto un’importanza rilevante tra le divisioni ideologiche della dottrina e della giurisprudenza.

Per l’interprete non è agevole confrontarsi davanti alla pletora di studiosi che supportano tesi talora differenti, per giungere alla tutela dei più preziosi degli elementi del contratto di lavoro, cioè la prestazione personalmente resa da un soggetto, alle dipendenze di un altro soggetto, intercorrendo tra essi un vincolo di subordinazione con “messa a disposizione” del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.

L’art. 2094 del c.c., nel descrivere il non plus ultra dei rapporti di lavoro e che fino a 20 anni fa era la forma cd. tipica dei rapporti, si limita ad indicare punti che tracciano indelebilmente l’inizio di una interpretazione pluriforme.

La dottrina in merito alla questione della qualificazione del rapporto si è divisa su tutto. Lo ha fatto sull’essenza della subordinazione, cioè sul significato da attribuire all’espressione resa dal legislatore, ossia socio economico o tecnico funzionale. In secondo luogo, sul metodo con cui procedere alla operazione qualificatoria, ossia sussuntivo o tipologico. Infine, sulla fonte del rapporto da rinvenirsi nel contratto oppure nella prestazione di fatto resa dal lavoratore.

A partire dalla seconda metà degli anni 80’, la Corte di Cassazione, nel tentativo di risolvere le controversie che le venivano portate davanti ha rispolverato a fini qualificatori il c.d. nomen iuris scelto dalle parti in sede di stipula del contratto: “il nomen iuris assegnato dalle parti al contratto, pur non vincolando il giudice nella qualificazione del rapporto, dovrebbe costituire un elemento fondamentale per la ricostruzione della volontà negoziale, superabile mediante il ricorso ad altre regole integrative previste dalla legge soltanto quando questa volontà mancasse di chiarezza, univocità e precisione”.

Questo approccio sul nomen iuris non è soltanto qualcosa che ha dedotto la Cassazione: lo si rinviene anche trasfuso nella procedura di certificazione dei rapporti di lavoro, introdotta dal d.lgs. 76/2003. Le procedure di certificazione dei rapporti, procedure attraverso le quali le parti sostanzialmente si recano davanti agli organismi preposti alla certificazione stabilire la qualificazione del rapporto appunto (lavoro autonomo, subordinato, a progetto), secondo la dottrina non avrebbero efficacia vincolante tra le parti.

Da dove nasce, dunque, l’esigenza dell’affannosa ricerca della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato, a fronte della miriade di lavori parasubordinati o dai contenuti e forme ambigue?

La natura del problema è da ricercarsi nel fatto che oggi domina una concezione secondo la quale l’eguaglianza di trattamento economico e giuridico che la disciplina propria del lavoro subordinato tendeva ad assicurare a tutti quelli che lavoravano nell’impresa, costituisce una causa di rigidità che impedisce all’offerta di lavoro di incontrarsi con la domanda.

Norme come quelle dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015, così come quelle che nel tempo hanno disciplinato la collaborazione coordinata e continuativa a progetto, il lavoro intermittente, il lavoro a chiamata ecc., rispondono all’obiettivo di scardinare questa eguaglianza, allo scopo dichiarato di indurre le imprese a liberarsi dalla paura di assumere qualcuno.

La ragione delle infinite vertenze per vedersi riconosciuto il trattamento economico e previdenziale del rapporto di lavoro subordinato, ha portato la giurisprudenza ad una serie di sentenze in alcuni casi apparentemente contraddittorie.

Un “pony express”, alla metà degli anni 80’, si trovò coinvolto in un incidente con il suo motorino; da questo evento scaturirono due cause, una che si concluse davanti alla Corte di Cassazione sezione penale, per la violazione della tutela delle norme antiinfortunistiche a carico dell’impresa che aveva assoldato il dipendente, con riconoscimento della natura subordinata del rapporto e risarcimento del danno; mentre la sezione lavoro della stessa Corte, due anni dopo, affermò che quel rapporto aveva carattere autonomo o comunque non ne era stato provato il carattere subordinato.

La Corte aveva in particolare affermato, con sentenza n. 7608/1991 (sentenza che mantiene attualità straordinaria sol che si sostituisca al termine “pony express” il termine “rider”), ciò che segue: “secondo opinione ormai consolidata, carattere distintivo essenziale del rapporto di lavoro subordinato è la subordinazione intesa quale vincolo di soggezione al potere giuridico, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro; le relative modalità possono variare in relazione al tipo di prestazione convenuta, ma è decisivo, al fine della configurazione della subordinazione, non tanto la stretta inerenza della prestazione lavorativa all’attività produttiva dell’imprenditore, quanto e soprattutto che essa venga resa sotto la direzione dell’imprenditore. Alla luce di tale considerazione con stretto riferimento alla fattispecie in esame, appare inesatta l’affermazione della sussistenza di un potere gerarchico di fronte alla manifestata volontà delle parti secondo cui l’effettuazione della prestazione poteva essere non resa secondo l’apprezzamento del soggetto che doveva renderla, e senza che sul piano dei rapporti interni derivasse altra conseguenza dalla mancata corresponsione del compenso previsto”.

In buona sostanza, la caratteristica della prestazione dei pony sono identiche modalità con cui viene prestato il lavoro dei riders nella nota sentenza n. 1663/2020, finalmente, in presenza della c.d. etero-organizzazione dell’attività di collaborazione, richiamandosi così all’art. 2, c. 1, del d.lgs. n. 81/2015 che, in presenza di rapporti di collaborazione organizzata dal committente, si applicano le tutele tipicamente dettate dal legislatore per i rapporti di lavoro subordinato. Il “coordinamento” diventa “etero-organizzazione” quando le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa sono imposte dal committente.

Il problema che spesso si pone circa le trasformazioni tecnologiche che avrebbero fatto cambiare le basi della nostra società1, è in realtà un falso problema, la tecnologia di per sé non cambia la società, ma sono i rapporti sociali che cambiano secondo molteplici dinamiche.

Ed oggi appare opportuno soffermarsi sulla motivazione espressa dalla Cassazione nell’ordinanza n. 1095 del 16.01.2023, in cui afferma la Giurisprudenza che, laddove non emerga una “soggezione al potere direttivo datoriale”, è possibile dimostrare la sussistenza degli estremi del rapporto subordinato anche attraverso una prova presuntiva che si avvalga di elementi di natura indiziaria. La motivazione, ancorata allo schema normativo dell’art. 2094 c.c. continua a qualificare la soggezione personale del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro.

Elemento essenziale del rapporto di lavoro, sì, eppure, afferma la Corte, “ non costituisce un dato di fatto elementare quanto piuttosto una modalità di essere del rapporto potenzialmente desumibile da un complesso di circostanze; sicché, ove esso non sia agevolmente apprezzabile, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi (come, ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, l’assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppure minima struttura imprenditoriale), che hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria. Tali elementi, lungi dall’assumere valore decisivo ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, costituiscono indizi idonei ad integrare una prova presuntiva della subordinazione, a condizione che essi siano fatto oggetto di un valutazione complessiva e globale (così, ex plurimis, Cass. civ., sez. lav., 27.9.2019, n. 24154, ed ivi in motivazione i precedenti di legittimità, anche a Sezioni Unite, in senso conforme)”.

Gli elementi di natura indiziaria, dunque, non devono essere considerati secondari?

In realtà, come ricordato più volte dalla Giurisprudenza2, “nessuno dei criteri proposti dalla dottrina appare da solo sufficiente ad identificare la fattispecie del lavoro subordinato nell’impresa disegnata dall’art. 2094 c.c. e a distinguerla da quella del lavoro autonomo3.

Osservando il caso esaminato, la Corte d’appello di Firenze valutava una serie di contratti di lavoro autonomo (denominati incarichi di consulenza) indicano in maniera del tutto generica l’oggetto della prestazione del collaboratore; una espressa pattuizione di un compenso commisurato alle giornate lavorative; l’utilizzo di strumenti di lavoro forniti dal datore di lavoro con conseguente insussistenza di rischio economico del prestatore; un periodico prospetto riepilogativo prodotto dal prestatore, per cui il datore di lavoro esercitava un controllo sull’entità oraria e giornaliera della prestazione lavorativa del collaboratore; la messa a disposizione dell’attività lavorativa del lavoratore nell’ambito di un servizio di assistenza informatica fornito dalla società con cui aveva il contratto per il Ministero della Giustizia. Dunque, nel caso de quo, il prestatore dava la propria disponibilità ad assicurare l’assistenza sistemistica nell’arco temporale richiesto dal prestatore in relazione agli obblighi assunti dalla società nei confronti dell’amministrazione committente. La Corte di Merito nella valutazione globale del fatto ha dunque accertato che non si è in presenza di circostanze “semplicemente compatibili” con il rapporto di lavoro subordinato.

Dalla subordinazione alle subordinazioni”?

Ed è sempre l’ Autore autorevole a suggerire la necessità di revisione della fattispecie della subordinazione come categoria unitaria, “ poiché allo stato, non siamo più in presenza di una subordinazione, bensì di diverse subordinazioni4.

Il più rigoroso teorizzatore del positivismo giuridico, Hans Kelsen, disse che “il compito di ricavare dalla legge la giusta sentenza è sostanzialmente uguale a quello di fare la giusta legge nell’ambito della Costituzione”.

Tali considerazioni suggeriscono che cosa abbia inteso dire il legislatore ponendo la disposizione dell’art. 2094 c.c., può condurre non ad una ma a molteplici possibilità ermeneutiche: ciò significa che è proprio dell’interpretazione, ma forse è più corretto dire di ogni interpretazione, la possibilità di condurre non ad una soluzione soltanto come a quella giusta, ma possibilmente a più soluzioni le quali tutte, dal punto di vista della norma da applicare si equivalgono per ragionevolezza, logicità e fondata sull’assunto normativo di riferimento.

Note

1 A. Aloisi, V. De Stefano, Il tuo capo è un algoritmo-Contro il lavoro disumano, Tempi Nuovi, Editori Laterza,2020.

2 Cass. Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 379, in Rep. Foro it., 1999, Voce Lavoro (rapporto), n. 655. Di recente Trib. Catania, 17 aprile 2019, n. 1863, in Giuslavorista, 9 maggio 2019.

3 G. Santoro Passarelli, Diritto dei lavori e dell’occupazione, G. Giappichelli Editore, cap. 21, p. 234.

4 F. Carinci, La subordinazione rivisitata alla luce dell’ultima legislazione: dalla “subordinazione” alle “subordinazioni”?, in Arg. Dir. Lav., 2018, n. 4-5, p. 961 ss.

Scarica l’articolo in PDF – [CR 31-01-2023] Falcone Maria Concetta – La Cassazione ammette la prova presuntiva della subordinazione del lavoratore apparentemente non soggetto al potere direttivo datoriale

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