di Marco Ferrari
«L’Ottobre, nella concreta situazione che si era creata in Russia e intorno a essa, era storicamente inevitabile.»
M. S. Gorbačëv
Sommario
Premessa
1) L’onda lunga della rivoluzione russa
Il populismo russo
Lo sviluppo teorico
L’esito politico
2) Il marxismo e la battaglia delle idee
Bolscevismo e menscevismo
La rivoluzione del 1905
L’altra anima della rivoluzione
3) 1917. Dal Febbraio all’Ottobre
Tutto il potere ai bolscevichi
4) Trionfo e tragedia
Bianchi contro Rossi
Costruire il futuro
Comunismo di guerra e Nuova Politica Economica
Verso il “marxismo-leninismo”
Appendice
Bibliografia
Note
Premessa
Il 7 Novembre di quest’anno ricorre il centesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Il tempo in cui questa ricorrenza esprimeva un contenuto reale, vivo e presente nella cultura e nella storia quotidiana di milioni di persone nel mondo, è passato da quasi trent’anni; eppure l’evento rivoluzionario del 1917 in Russia riveste ancora una importanza pari a quello del 1789 in Francia, cui si deve la nascita degli Stati moderni. Come e più di quella francese, la Rivoluzione russa continua a dividere gli animi tanto per le sue premesse (e promesse), quanto e soprattutto per le sue conseguenze. Le molte pubblicazioni e ripubblicazioni che hanno riempito negli ultimi mesi gli scaffali delle librerie, le pagine dei giornali e altri mezzi di comunicazione confermano la necessità di fondo di rielaborare il significato di quegli eventi, dopo un secolo tra i più tragici e trionfali della storia e l’avvento di un’era fondata sull’incertezza e il mutamento costanti. Questo breve contributo non è un saggio prettamente storico, in cui siano analizzati in dettaglio gli avvenimenti dell’Ottobre – questo lavoro è proprio degli storici e ve ne sono esempi di grande valore; né pretende di essere un saggio di teoria politica, che richiederebbe uno spazio e un approfondimento molto maggiori. Una “storia delle idee” della Rivoluzione russa dovrebbe consistere in una ricerca sulle vicissitudini teoriche di eventi, la cui portata incommensurabile sull’evoluzione del mondo moderno non può essere negata né minimizzata, e deve perciò essere valutata e compresa. Naturalmente, la storia delle idee non può essere disgiunta dagli eventi storici reali, che su quelle idee hanno influito tanto quanto ne sono stati influenzati. L’intenzione, dunque, è di proporre una ricostruzione dell’evento rivoluzionario attraverso le idee che lo hanno generato, partendo dalle spinte rivoluzionarie del XIX secolo, dall’evoluzione del populismo, per arrivare alla concezione del marxismo sviluppatasi nella Russia del primo Novecento, alle differenze tra bolscevismo e menscevismo, infine al fatidico 1917 con le rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre, e alcune delle loro principali conseguenze. Al lettore spetterà poi tentare una ricerca del senso della rivoluzione e cosa se ne può trarre ancora oggi, dopo cento anni di tumulti che, nel bene e nel male, ci hanno resi ciò che siamo e influenzeranno ciò che saremo.
1) L’onda lunga della Rivoluzione russa (1825-1886)
Quando si parla di rivoluzione nella Russia tra XIX e XX secolo, si parla di molti eventi in successione. L’Ottobre 1917 è il culmine di un processo rivoluzionario frammentato, difficile e proiettato sul lungo periodo. Anche nella storia russa più antica vi sono stati momenti di forte crisi sociale, basti pensare al periodo dei torbidi e a figure di rivolta contro l’autocrazia zarista come Stenka Razin e Emeljan Pugačëv; ma è nell’Ottocento che troviamo i prodromi delle rivoluzioni, con il moto decabrista, il populismo nelle sue varie forme e le sofferenze del passaggio dal sistema feudale alla uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
L’Impero russo, rispetto agli Stati europei all’inizio del XIX secolo, si basa ancora sul sistema feudale, conservando l’istituto della servitù della gleba. Nel Settecento vi erano stati significativi sforzi di modernizzazione della cultura e delle istituzioni grazie a regnanti quali Pietro il Grande e Caterina II, con il “trapianto” di idee dall’Europa occidentale: la nascita del pensiero filosofico in Russia si attesta con l’arrivo dall’estero di discepoli del razionalismo tedesco e dell’illuminismo francese, che influenzano profondamente la formazione della futura intelligencija. Temi quali la condizione contadina, la natura dell’autocrazia zarista e la definizione della spiritualità del popolo russo si sviluppano in correnti di pensiero che, nel corso dell’Ottocento, arricchendosi dell’idealismo di Schelling e Hegel, caratterizzeranno la fondamentale tensione riformatrice del populismo.
Tuttavia la società soffre ancora di arretratezza, la cultura è ancora appannaggio delle élite, e la solidità politica dello zarismo rende inutile qualsiasi discorso concreto di riforma. L’organizzazione sociale si può schematizzare, semplificando, nella piramide aristocrazia-funzionari-contadini, dove la prima è composta da grandi proprietari terrieri, da intellettuali di varia estrazione e da ufficiali dell’esercito, la seconda dalla vasta rete di burocrati che costituiscono l’ossatura dell’apparato statale zarista, e la terza è l’immensa classe lavoratrice, largamente analfabeta, spesso in condizioni di estrema povertà e, naturalmente, del tutto priva di rappresentanza. L’influenza delle idee occidentali è perciò ristretta alla cerchia delle persone istruite e, tra queste, gli ufficiali dell’esercito si rendono presto conto che la modernizzazione del Paese è un problema di estrema urgenza.
Nascono così alcune società segrete in varie parti dell’Impero, i cui membri convergono sull’obiettivo comune di realizzare una liberalizzazione della politica e dell’economia russe, con l’abolizione della servitù della gleba e l’indipendenza da influenze straniere sia esterne (gli europei alleati dello Zar) che interne (gli stranieri occupanti alte cariche dello Stato); divergono però su modi e dinamiche: una parte intende trasformare l’autocrazia zarista in monarchia costituzionale con decentralizzazione del potere, l’altra propone la svolta verso una repubblica parlamentare in cui, al contrario, i poteri si accentrino. Queste divergenze non cambiano però il piano di fondo, detronizzare lo Zar e attuare il cambiamento radicale attraverso la rivolta violenta, considerata l’unica via possibile per la trasformazione.
L’esito di questa prima presa di coscienza della realtà socio-politica di Russia è il moto decabrista del dicembre 1825. In occasione dell’incoronazione di Nicola I a Pietroburgo, alcune truppe della Guardia imperiale nella piazza del Senato fanno scattare la rivolta, mentre nel sud del Paese altri reparti provocano una sommossa. Entrambe le sollevazioni sono immediatamente schiacciate, la conseguente repressione si conclude con l’impiccagione dei cinque principali congiurati e la deportazione di molte altre persone ai lavori forzati. Sebbene fallimentare, la rivolta dei decabristi è oggi considerata all’origine di importanti correnti di pensiero come il patriottismo slavofilo, al pari delle teorie filosofiche e politiche, nonché ispiratrice di riforme che saranno attuate nella seconda metà dell’Ottocento.[1] I decabristi possono essere considerati come la scintilla che accende il moderno fuoco rivoluzionario nel paese che, sotto il regno di Nicola I, si attesta come il più reazionario d’Europa (non a caso lo Zar crea una sezione speciale della polizia politica il cui compito è il controllo e la repressione delle espressioni culturali occidentaleggianti, liberali e socialiste, che continuerà ad operare fino al 1880).
Il populismo russo
Nonostante l’oppressivo regime zarista, verso la metà dell’Ottocento si sviluppa nelle università quel vasto movimento intellettuale chiamato narodničestvo, ossia “populismo”, che porta avanti la critica delle condizioni socio-politiche dell’Impero, predicando l’emancipazione dei contadini e una profonda riforma sociale.[2] Tale populismo si caratterizza sul piano teorico per due correnti di pensiero principali: gli slavofili e gli occidentalisti. I primi hanno una prospettiva filosofica che fonde misticismo ed etica, rivalutando la religiosità e il carattere spirituale della cultura russa in favore delle riforme interne, ma contro l’esotismo delle idee liberali europee; lo sviluppo della Russia deve essere autonomo, rintracciare al suo stesso interno gli elementi per il cambiamento, seguendo linee conformi alla propria storia. La riforma sociale si basa quindi sul ritorno alle forme antiche di organizzazione collettivistica dei contadini, estranee al concetto di proprietà privata (dunque contro il liberalismo occidentale) in quanto basate sulla comunità nomade, e considerate al tempo stesso un freno alle pulsioni rivoluzionarie di ispirazione socialista moderna. Non lo Stato, bensì il popolo è la vera forza organica della nazione; l’ordine sociale deve pertanto recuperare il rapporto deteriorato tra l’autocrazia e il popolo contadino, eliminando la servitù della gleba, basata sullo sfruttamento del lavoro stanziale (feudale), e riformando la relazione tra i padroni della terra e i lavoratori nel senso di una comunità patriarcale, tenuta insieme dallo spirito religioso cristiano: una nuova obščina[3] che possa fondere tradizione e riforma, recuperare l’idea di comunità cristiana, eliminando al tempo stesso i soprusi del sistema feudale e i pericoli dell’influenza culturale straniera.
È insomma una corrente populista patriottica e nazionalista, conservatrice dell’ordine a patto di riformarlo per salvarne le fondamenta. Questo tipo di conservatorismo, i cui principali esponenti sono I. S. Aksakov e J. F. Samarin, è simile alle correnti del romanticismo tedesco e i suoi elementi idealistici, seppur di “destra”, sono in ogni caso incompatibili con l’assolutismo rigidamente gerarchico dello zarismo (certamente del regno di Nicola I): la critica principale è rivolta a Pietro il Grande per la sua modernizzazione che ha fiaccato l’originaria comunità popolare russa inserendola in un contesto di produzione crescente, ma questa modernizzazione è alla base del potere attuale dello Zar e dei grandi proprietari terrieri, dunque esiste una differenza profonda tra la conservazione reazionaria del potere politico e la conservazione idealistica e morale degli slavofili.
Gli occidentalisti, invece, possono essere considerati riformatori democratici radicali. Influenzati dall’idealismo hegeliano e in particolare dalle sue interpretazioni di sinistra (Bauer, Ruge, Feuerbach), ritengono inevitabile lo sviluppo moderno della Russia e anzi propugnano una crescente occidentalizzazione della cultura e della società. L’idea alla base della loro filosofia della storia è che ogni nazione vive due grandi epoche, una in cui è immediatamente naturale e quindi è soprattutto “popolo”, e un’altra in cui si realizza come Spirito cosciente e diventa “nazione” in senso proprio, passando da una concezione comunitaria omogenea e statica a una concezione dinamica e progressiva, democratica e borghese come proposta dalla Rivoluzione francese. La crescita umana del popolo ha bisogno di quegli elementi di libertà individuale che dispiegano le potenzialità socializzanti di un nuovo ceto medio progressista, la cui azione trasformatrice porta la nazione a costruire una civiltà universalistica e partecipativa, eliminando le differenze sociali più stridenti. Il liberalismo degli occidentalisti è perciò da intendersi più come un mezzo per il progresso dell’intera società attraverso l’autonomia della sfera individuale, che non un individualismo economico come quello europeo di matrice anglosassone.
Su questo punto però si crea una spaccatura nel movimento, tra l’idea di uno sviluppo borghese inevitabile e la possibilità di un’evoluzione socialista; A. I. Herzen è il sostenitore più agguerrito di questa seconda prospettiva, il quale critica la cupidigia della borghesia europea con la sua costante ricerca di profitti e volge in positivo lo storico isolamento del popolo russo, “salvatosi” dallo spirito borghese occidentale e quindi pronto a uno sviluppo differente, che realizzi le idee primigenie del liberalismo. Riprendendo la questione dell’obščina dagli slavofili, Herzen crede che il contadino sia molto più propenso al socialismo e che l’uomo del futuro sia possibile in Russia quanto e più che nella Francia rivoluzionaria o nel resto d’Europa. In tal senso, le sue conclusioni sono viste come anti-occidentali dagli altri esponenti del movimento; a maggior ragione, non si tratta ancora di un socialismo marxista, perché non pone particolare attenzione al momento economico. È in sostanza una posizione teorica che riesce a conciliare l’occidentalismo e lo slavofilismo, con la proposta di un socialismo prettamente “russo” che prospetta il futuro dell’Impero in un’evoluzione progressiva separata dalle dinamiche europee, un progresso alternativo la cui visione ha grande influenza sul populismo maturo, propriamente rivoluzionario, che si sviluppa tra gli anni Sessanta e i Settanta.[4]
Lo sviluppo teorico
Nel 1855 sale al trono Alessandro II, sovrano di ampie vedute e decisamente meno autoritario del padre. La comprensione della realtà russa, della necessità di modernizzazione per stare al passo con le altre potenze europee, nonché la consapevolezza del rischio di rivolte popolari, portano il nuovo Zar a decretare l’abolizione della servitù della gleba nel 1861: tale evento, preparato da alcuni anni di discussioni con i grandi latifondisti e gli intellettuali delle riviste autorizzate (in particolare la rivista Sovremennik[5]), è la chiave di volta nella storia della rivoluzione russa. In un certo senso è esso stesso una “rivoluzione” dall’alto, un cambiamento realizzato al fine di far progredire il paese, senza per questo lasciare spazio all’iniziativa degli strati popolari, assicurando così una riforma sociale controllata e controllabile. L’abolizione della servitù introduce elementi di proprietà privata e redistribuzione delle terre tra le comunità di contadini che le lavorano, ma allo stesso tempo mantiene molti dei privilegi dei proprietari terrieri, come la corresponsione di tasse e il controllo della circolazione delle persone tramite passaporti interni. I contadini, ora proprietari della casa in cui vivono, restano inoltre legati alla comunità rurale per via della terra in comune, di cui possono acquistare appezzamenti dalla comunità stessa, ma che spesso non sono in grado di mantenere; perciò rivendono ad altri contadini più ricchi i loro appezzamenti, migrando poi verso le città per diventare operai nelle nascenti fabbriche.
In questa situazione, che segue un andamento simile alla modernizzazione europea, si crea un malcontento dovuto alla sensazione, che oggi potremmo definire “gattopardesca”, per cui il grande cambiamento abbia in realtà assicurato la sopravvivenza dello status quo. Alcune rivolte scoppiano nelle campagne, prontamente represse dall’esercito. Il populismo si sviluppa allora in varie correnti, accomunate dalla tensione concreta verso la rivoluzione. Tenendo presente che la sconfitta della Russia nella guerra di Crimea (1853-1856) aveva diviso gli intellettuali fra chi appoggiava incondizionatamente lo zarismo e chi lo avversava con rinnovata aggressività, negli anni Sessanta e Settanta si arriva alla formazione di vari circoli rivoluzionari, tra le cui figure principali vanno ricordate quelle di N. G. Černyševskij, P. L. Lavrov, M. A. Bakunin, P. N. Tkačëv.
Černyševskij elabora una sua interpretazione del materialismo tedesco e dell’utilitarismo inglese, per cui la materia è la base della realtà, ogni funzione della mente è spiegabile su tale base e l’unica conoscenza valida è quella condotta attraverso l’analisi empirica. È di conseguenza logico che le azioni umane seguano quelle “leggi della natura” che in realtà sono i meccanismi di funzionamento delle forze e delle proprietà della materia: per questo Černyševskij propone un comportamento morale improntato all’egoismo razionale, che spinge l’individuo a ricercare il maggior vantaggio e il maggior piacere per se stesso; accettando che anche gli altri individui siano egoisti, si rende conto che attraverso la cooperazione (e non la competizione di tutti contro tutti, come ci si aspetterebbe da una società egoistica irrazionale) sarà possibile perseguire il maggior bene per il maggior numero, rendendo possibile il futuro socialista in opposizione al capitalismo della borghesia europea. È evidente come la radicalità di queste idee, a maggior ragione nella Russia zarista, comporti anche una radicalità politica che esplode a seguito della delusione per l’ambiguità dell’abolizione del sistema feudale. Černyševskij cura una rubrica nuova, intitolata “Politica”, in cui attacca ripetutamente le scelte politiche dello Zar e dei grandi proprietari terrieri, in difesa di una riforma dell’obščina per creare un nuovo sistema di cooperative, in cui i contadini avrebbero avuto il reale possesso delle terre e i mezzi per sviluppare un’agricoltura moderna. Ciò avrebbe consentito lo sviluppo di un’economia forte come quella capitalistica, saltando però le fasi intermedie ed evitando i lati negativi del capitalismo (riconducibili all’irrazionalità della competizione spietata).[6] Queste idee filosofiche sono espresse in articoli pubblicati su Sovremennik, in lettere ad amici e familiari, e nel romanzo Che fare?[7]del 1863.
Lavrov è un seguace del positivismo e ritiene che il progresso, contrariamente a quanto propugnato da un materialismo percepito come ingenuo, non consiste solo nell’accumulazione di beni e conoscenze, ma che esso fa parte di uno sviluppo umano a più dimensioni, non da ultima quella morale: è impossibile separare l’azione progressiva da un valore morale che ne consenta la valutazione, pertanto le classi privilegiate, le quali godono appieno dello sviluppo della civiltà, hanno anche il dovere morale di rendersi conto del debito che hanno nei confronti delle classi subalterne, del lavoro con cui esse hanno costruito il benessere delle élite, senza peraltro parteciparvi. Il valore morale è definito “soggettivo” in quanto risiede nella coscienza del soggetto umano operante nella storia e quindi artefice del proprio destino; la conseguente critica allo sviluppo borghese, sviluppata insieme a N. K. Michajlovskij, riguarda la riduzione dell’uomo a ingranaggio passivo del processo di produzione attraverso la sistematica divisione del lavoro, per cui il progresso reale è riservato ad alcuni membri della società e precluso ad altri. Una minima divisione e una massima differenziazione individuale devono invece essere alla base dell’organizzazione sociale per lo sviluppo della solidarietà e della giustizia, con cui promuovere l’elevazione umana generalizzata. Lavrov concepisce dunque il progresso come una categoria morale e su ciò basa l’appello all’intelligencija di retribuire il popolo per la loro condizione agiata: “andare al popolo” diventa la parola d’ordine per studenti e giovani intellettuali, i quali non possono permettersi di restare indifferenti di fronte all’incedere della sperequazione sociale. Saldare il debito morale con i contadini consiste perciò nell’andare di persona nelle campagne, incontrare il popolo, conoscerne la realtà quotidiana e far conoscere il socialismo, unico ideale in grado di contribuire al bene di tutti: la rivoluzione, secondo Lavrov, diventa possibile solo attraverso l’educazione morale del popolo.[8]
Bakunin ha invece una posizione molto più radicale: il popolo russo è già socialista e rivoluzionario, per istinto. Proprio grazie all’obščina, esso concepisce la terra come proprietà comune e ha esperienza nell’autoamministrazione, contro la gerarchia burocratica dello Stato che è visto solo come apparato oppressivo. La liberazione popolare può realizzarsi solo con l’immediata distruzione dello Stato, condotta dalla classe contadina; contro le tesi marxiste, Bakunin ritiene che questa classe sia l’unica a poter attuare la rivoluzione, in quanto il proletariato industriale seguirebbe la logica del capitalismo impadronendosi dello Stato e perpetuando i suoi meccanismi repressivi. La miseria in cui versa la popolazione delle campagne, inoltre, è tale da rendere spontanea la sollevazione, senza alcuna necessità di educazione politica da parte degli intellettuali. Altrettanto, l’organizzazione rivoluzionaria spetta a cellule anarchiche clandestine, completamente dedite alla causa, il cui compito non è però di dirigere le masse, bensì di operare come fomentatori dei sentimenti di rivolta già presenti in esse. Il futuro anarchico della Russia si sarebbe poi concretizzato per naturale evoluzione in una federazione di libere comunità rurali.[9]
Tkačëv, infine, è fautore di una linea giacobina. Accetta l’idea delle cellule rivoluzionarie clandestine, ma rifiuta lo spontaneismo delle masse. Ritiene che la presa di coscienza delle masse attraverso l’educazione sia insufficiente, così come l’azione puramente sobillatrice; le cellule rivoluzionarie devono invece agire secondo un’organizzazione ben congegnata e fornire una direzione razionale alla rabbia e alla frustrazione accumulate dal popolo, incanalandole verso obiettivi concreti. La rivoluzione non può essere attuata, per Tkačëv, dalla maggioranza scatenata e volubile, bensì da una minoranza di rivoluzionari di professione con un programma delineato e le capacità di portare a compimento la trasformazione.[10] In ciò è ravvisabile una chiarezza organizzativa che sarà più tardi presente nel bolscevismo come “avanguardia del proletariato”.
L’esito politico
Il portato teorico di questi come di numerosi altri esponenti del populismo, trova il suo sbocco nell’associazione rivoluzionaria Zemlja i volja (“Terra e libertà”) che nell’ultimo quarto del secolo diventa l’organizzazione più attiva nell’Impero russo. L’associazione si riunisce su un programma generale per la costruzione del socialismo russo che riprende tutte le questioni sulla proprietà comune della terra, dell’autodeterminazione e dell’autogoverno delle comunità agricole, cui affianca la costituzione di cellule impegnate in attività cospirative di lotta contro lo Stato. La scelta di passare ad azioni concretamente insurrezionali deriva soprattutto dalla constatazione del fallimento dei tentativi lavroviani di educazione morale e politica del popolo: gli studenti che hanno risposto all’appello di “andare al popolo” si sono presto resi conto dell’arretratezza e dell’impreparazione dei contadini sui problemi politici e sociali, rivelando quasi impossibile una presa di coscienza della propria condizione. Nessun moto rivoluzionario, dunque, ma la reazione delle autorità con numerosissimi arresti per sobillazione. Da qui, la necessità di affiancare alla propaganda pacifica un’organizzazione armata per la difesa contro i funzionari statali; obiettivo comune è l’abbattimento dell’autocrazia e la rivalutazione della comunità rurale contro ogni possibile sviluppo capitalistico aperto dall’abolizione della servitù della gleba.[11]
L’uso della lotta armata però si estende tramite l’azione del terrorismo individuale, attuato da singoli rivoluzionari che tentano di dare l’esempio al popolo con attentati, non sempre mortali, alle cariche dello Stato più in vista. In questo modo, l’uso della violenza passa dall’autodifesa all’attacco, con il chiaro intento di scardinare con la forza l’apparato statale. Si crea allora una grave spaccatura tra chi ritiene sufficiente costringere il potere a concedere le libertà civili, attraverso la promulgazione di una moderna Costituzione, e chi, sospettando che un processo costituente possa indebolire il cambiamento rivoluzionario, giudica necessaria la lotta armata sistematica per dare al popolo il coraggio di sollevarsi. Non riuscendo a risanare questa rottura, Zemlja i volja si scioglie alla fine degli anni Settanta e la sua fazione radicale si riorganizza in Narodnaja volja (“Volontà del popolo”), un gruppo terrorista disciplinato, centralizzato e totalmente dedito alla lotta frontale contro lo Stato. Il culmine della sua attività terroristica è l’uccisione di Alessandro II nel marzo del 1881, che nelle intenzioni doveva essere il simbolo definitivo della fragilità dell’autocrazia e la scintilla che avrebbe spinto finalmente il popolo a insorgere. Ma il popolo non insorge e il nuovo Zar Alessandro III, come è prevedibile, attua una repressione spietata, che porta alla condanna a morte di tutti i responsabili e alla scomparsa del gruppo poco tempo dopo.[12]
2) Il marxismo e la battaglia delle idee (1890-1909)
La crisi del populismo, tanto sul piano pratico quanto su quello teorico, lascia un vuoto politico negli ambienti intellettuali della società russa. Tuttavia si creano nuove possibilità di elaborazione ideale; il dibattito politico-filosofico si arricchisce della ricerca di categorie concettuali più adatte all’interpretazione della realtà del Paese, alle prese con la nascita di forme di produzione capitalistiche, che favoriscono l’interesse per i frutti più “estremi” della critica hegeliana, ovvero le teorie economiche e filosofiche di Karl Marx e Friedrich Engels. La diffusione del marxismo in Russia viene spinta dalla traduzione del primo libro de Il Capitale nel 1872, a opera di alcuni ex-populisti che nel corso degli anni Ottanta costituiscono a Ginevra la prima associazione russa dichiaratamente marxista, Osvoboždenie truda(“Emancipazione del lavoro”), di cui fanno parte Vera Zasulič, Pavel Akselrod e Georgij Plechanov. Questi è il primo ad accettare l’idea di una fase di sviluppo capitalistico come fase di transizione verso il socialismo, avversata invece da gran parte dei populisti, scrivendo una serie di opere che contribuiranno alla base teorica della socialdemocrazia russa.[13]L’associazione, critica nei confronti del populismo e interessata a diffondere il socialismo scientifico, fonda una collana editoriale dedicata alla pubblicazione (e alla diffusione in Russia) delle traduzioni di tutte le opere di Engels e Marx allora disponibili; questa iniziativa riesce in effetti a emarginare le idee populiste e a porre le basi per la fondazione di un partito socialdemocratico vero e proprio.
Il successo del marxismo si innesta sul fallimento del populismo come teoria sociale, fornendo dal canto suo le ragioni scientifiche per continuare a credere, idealisticamente, nella possibilità del cambiamento. La stretta correlazione tra teoria e prassi è uno degli elementi che avvicinano l’analisi marxista al pensiero filosofico russo: la palingenesi dell’umanità passa per la riforma profonda delle condizioni sociali, ovvero la natura ideale dell’autorealizzazione è dominata dai problemi reali della materialità quotidiana; dunque, comprendere le leggi oggettive delle dinamiche sociali, che provocano storture e ingiustizie, apre la strada alla soluzione dei problemi tanto materiali quanto morali dell’umanità. La stessa nascente borghesia trova nelle tesi di Marx sullo sviluppo storico-economico delle società la propria vocazione palingenetica, ritenendosi la forza trainante che fa uscire l’Impero dal feudalesimo per portarlo, attraverso lo sviluppo di se stessa, verso il socialismo. In un certo senso, il populismo ha propugnato una fede nella trasformazione, mentre il marxismo ne offre la “certezza” scientifica. Inoltre, il populismo rivoluzionario aveva visto minate alla base alcune concezioni ideali di fondamentale importanza: il popolo contadino si era rivelato molto più vicino allo zarismo e al suo sistema arcaico, anziché alle istanze progressiste dell’intelligencija; di conseguenza, realizzare il socialismo senza passare per la fase capitalistico-borghese, intesa come fase di maturazione sociale preparatoria, diventava impensabile.[14]
Questo sviluppo capitalistico di fine secolo, conseguente all’abolizione del sistema feudale, non è comparabile con quello europeo e americano, ma dal punto di vista russo è impressionante. Quanto più ci si avvicina al Novecento e alla Grande guerra, tanto più i ritmi di sviluppo dell’industria, del capitale di base e del prodotto interno lordo crescono vertiginosamente; il mercato interno inizia ad espandersi sia per i mezzi di produzione che per i beni di consumo, mentre aumentano anche i depositi nelle Casse di risparmio; la Siberia diventa la nuova frontiera, popolandosi di agricoltori e lavoratori che accrescono ulteriormente la produzione e l’esportazione di prodotti e materie prime. Anche i trasporti, in particolare le ferrovie, aumentano il chilometraggio nell’ordine di decine di migliaia. La Russia, insomma, affronta un periodo tutt’altro che sonnolento per entrare nella modernità. Proprio per questo, la solidità dell’autocrazia continua a frustrare ogni tentativo di riforma, aumentando la pressione di antagonismi sociali sempre più acuti, «e l’esperienza della storia insegna che, quando le trasformazioni sono mature e il potere non risulta in grado di realizzarle, o la società comincia a marcire, o comincia la rivoluzione».[15]
La complessità del movimento marxista in Russia si evolve altrettanto velocemente. I cosiddetti “marxisti legali”, guidati da P. B. Struve e annoverante, tra gli altri, S. N. Bulgakov, N. A. Berdjaev e S. L. Frank, sono il primo gruppo a vedersi riconosciuto dalla censura il permesso di diffondere legalmente le proprie idee: sono loro a ritenere la borghesia come la vera forza progressista nel contesto semifeudale che caratterizza l’Impero russo, insistendo perciò sulla necessità del capitalismo fino a ritenere sufficiente l’approdo alla fase democratica riformista, attraverso cui realizzare gradualmente la via al socialismo. In questo modo, il capitalismo perde la sua natura di sistema basato sullo sfruttamento per diventare un obiettivo fine a se stesso, di cui il socialismo scientifico rappresenta il massimo sviluppo e perfezionamento. Le istanze rivoluzionarie sono pertanto abbandonate, la minaccia da queste paventata scompare, e ciò spiega la tolleranza delle autorità nei loro confronti.[16] Un altro gruppo è quello degli “economicisti” di E. D. Kuskova e S. N. Prokopovič, i quali operano una forte riduzione del marxismo a determinismo economico, ritenendo ogni espressione e azione umana un semplice frutto della base economica della società; lo stesso socialismo è un’evoluzione naturale dell’economia, perciò non può essere realizzato dall’azione di una classe o di un partito, in quanto il vero soggetto storico creativo è l’economia stessa. Il compito del proletariato si risolve piuttosto in un’azione rivendicativa dei diritti derivanti dallo sviluppo economico, e dei loro interessi immediati.[17] Questa rigida posizione determinista, avversata dagli altri marxisti russi, contribuisce a escludere gli economicisti dalla scena politica all’inizio del Novecento, anticipando le critiche all’indirizzo simile intrapreso dalla Seconda Internazionale.[18]
I marxisti rivoluzionari sono invece costretti alla clandestinità. Tra loro, il pensatore più importante a cavallo dei due secoli è Plechanov, autore di scritti politico-filosofici fondamentali per il marxismo russo. Il suo primo contributo è la traduzione della seconda edizione del Manifesto del partito comunista (1882), di cui Marx apprezza la fedeltà all’originale tedesco, contrariamente alla prima edizione tradotta da Bakunin e “tradita” con una terminologia anarchica estranea al contenuto. In seguito, Plechanov continua la collaborazione con Engels e Kautsky, a partire dalle traduzioni di cui si è detto, per poi condurre studi approfonditi sul materialismo storico e la situazione sociale della Russia.[19]L’autorevolezza filosofica che acquista alla fine dell’Ottocento lo fa assurgere a “padre del marxismo russo” e viene considerato un maestro da molti giovani rivoluzionari, tra i quali Lenin e Martov, rispettivamente futuri capi delle fazioni bolscevica e menscevica del POSDR. La linea di interpretazione di Plechanov viene definita come “marxismo ortodosso”, sia per la contrapposizione netta al riformismo di Eduard Bernstein, sia per i caratteri che assume sul piano teorico: il pensiero marxista, in special modo sulla scia delle opere dell’ultimo Engels, comprende in sé le leggi materialiste dialettiche su cui si fondano la realtà naturale e la sfera sociale, quindi anche discipline filosofiche come l’etica, la logica, e via dicendo. In tal modo, non è solo un metodo bensì un sistema, una concezione teorico-pratica della rivoluzione, della società umana e del loro sviluppo storico e naturale.[20] Plechanov difende perciò il marxismo da riduzioni e deviazioni, tentando di recuperarne la dimensione filosofica di matrice hegeliana; per questo si batte contro i marxisti legali accusandoli di propagandare le idee di Bernstein, e scrive un pamphlet contro il rigido determinismo degli economicisti.
La fondazione del Partito Operario Socialdemocratico Russo, nel 1898 a Minsk in condizioni di semiclandestinità, segna il primo passo verso la nuova politica rivoluzionaria in Russia. Scopo principale è riunire tutte le organizzazioni socialiste di vario orientamento nell’Impero. La critica al populismo e alle sue premesse teoriche sull’eccezionalità della situazione russa vengono definitivamente sancite con l’adozione del marxismo come concezione teorico-pratica della rivoluzione; si riconosce però anche una continuità con lo spirito rivoluzionario, in particolare con l’esperienza di Narodnaja volja.[21] Rottura e continuità, dunque, che non si limitano a un’affermazione di principio: Lenin riprende diverse questioni poste dal giacobinismo dell’organizzazione nei suoi scritti, e tornerà anche in anni successivi sul populismo e sui rapporti tra i grandi movimenti rivoluzionari russi, riconoscendo il valore delle sofferenze e delle lotte ottocentesche come prodromo alla rivoluzione proletaria.
Il primo Congresso del POSDR è ristretto a soli nove fondatori, presto tratti in arresto dalle autorità, per cui sembra che il partito sia stato distrutto sul nascere; invece i gruppi rappresentati si riorganizzano e sorge un giornale clandestino, l’Iskra (“Scintilla”), cui collaborano Lenin, Martov, Potresov, Plechanov (emarginato per i suoi attacchi agli economicisti), Zasulič, Akselrod, Struve, tra gli altri. Nel primo numero sono presenti l’articolo di Lenin I compiti urgenti del nostro movimento e quello di Martov I nuovi amici del proletariato russo, in cui entrambi sottolineano la necessità dell’unione tra lotta economica e lotta politica: le agitazioni del frammentato movimento operaio erano principalmente lotte economiche, su salari e trattamenti sul lavoro; in polemica con gli economicisti, che prospettavano una alleanza del proletariato con i liberali per ottenere appunto benefici economici, Martov e Lenin sostengono che senza l’unità fra il movimento operaio e la socialdemocrazia, ossia senza la direzione politica coerente delle lotte, questo rischia di arenarsi in una posizione passiva, finendo col diventare un’appendice della borghesia e farne il gioco.
Bolscevismo e menscevismo
Al II Congresso del POSDR, però, le differenze tra i due iskristi sull’organizzazione del partito provocano la scissione in due correnti che presto diventeranno inconciliabili: i bolscevichi e i menscevichi. Il Partito, riunito tra Londra e Bruxelles nel 1903, riunisce molti gruppi di diverso orientamento, che concordano sui punti fondamentali di un Programma pensato per conciliare le posizioni moderate e radicali. Articolato in due parti, nella prima pone gli obiettivi a lungo termine e quindi la prospettiva storica e teorica del partito, cioè il superamento del capitalismo, l’instaurazione della dittatura del proletariato e la costruzione del socialismo (programma “massimo”); nella seconda pone invece gli obiettivi immediati di azione politica: eliminazione dell’autocrazia e istituzione della repubblica, diritti civili e politici per tutti secondo il modello costituzionale, diritti sociali per operai e contadini come la giornata lavorativa di otto ore, una nuova riforma agraria per il superamento definitivo del feudalesimo, ecc (programma “minimo”). Questo programma viene votato quasi all’unanimità.
Sullo Statuto, invece, le discussioni si accendono proprio tra gli iskristi, perché l’organizzazione del partito è il punto su cui si scontrano due concezioni dalle conseguenze decisamente diverse. Per Martov, i membri del partito dovevano potersi esprimere in modo autonomo rispetto ai dirigenti centrali, mentre per Lenin era necessaria l’unità d’azione del partito, secondo il metodo che diverrà poi noto come centralismo democratico. La votazione dà la vittoria a Martov, ma nelle sedute successive Lenin ottiene i voti sul controllo del comitato di redazione dell’Iskra e sulla composizione degli organi centrali del partito; nonostante la sconfitta sulle regole, Lenin approfitta del momento favorevole per chiamare la sua fazione bolševiki (“maggioritari”), mentre quella di Martov (e di Plechanov, che si schiera con lui) accetta di chiamarsi menševiki (“minoritari”).[22]
Il dissenso sulle regole e i requisiti dei membri del partito va molto oltre una battaglia congressuale. Lenin ha espresso chiaramente le sue idee sull’organizzazione nel famoso scritto Che fare?[23], del 1902, in cui si prospetta la figura del rivoluzionario di professione, organizzato in un partito centralizzato e disciplinato, con pochi membri totalmente dediti al lavoro politico, in grado di mettersi alla testa del movimento operaio come avanguardia del proletariato.[24] Martov e i menscevichi accusano i loro avversari di voler così trasformare quello che dovrebbe essere un partito di massa in un’organizzazione giacobina; l’idea di “avanguardia” alla testa del proletariato tradisce inoltre l’idea autenticamente marxiana della presa di coscienza della classe lavoratrice e della sua maturazione verso il cammino rivoluzionario. L’impostazione menscevica riprende una idea “evoluzionista” del materialismo storico, guardando cioè all’evoluzione sociale per tappe indicata da Marx ed Engels, per cui nella Russia ancora semifeudale c’è bisogno di una rivoluzione condotta dalla borghesia che, secondo i menscevichi, va aiutata nel suo compito storico, sostenuta perché possa avviare la modernizzazione capitalistica propedeutica al socialismo, alla formazione di una vera classe operaia cosciente e preparata, alla istituzione di una repubblica liberale come in Occidente. La socialdemocrazia (e quindi il POSDR) ha un ruolo di rappresentanza delle istanze economiche del proletariato in un quadro liberale, arrivando ad abbassare il tenore politico delle sue azioni in favore dello sviluppo di una politica democratico-borghese. Le lotte economiche di cui la socialdemocrazia si farebbe carico, nelle intenzioni di Martov, renderebbero il partito aperto a tutti gli operai di qualsiasi orientamento, attivi o in sciopero, quindi un partito largo, di massa. Dunque, la rivoluzione socialista del programma “massimo” viene sospesa a tempo indefinito, mentre il programma “minimo” assume il ruolo centrale nell’alleanza stabile con i liberali per una rivoluzione democratica.
Questo evoluzionismo sociale viene criticato e rigettato totalmente dall’analisi di Lenin[25], il quale sostiene che i compiti e gli obiettivi della fase preliminare della rivoluzione socialista hanno certamente un carattere democratico-borghese, ma la realtà della borghesia russa non lascia spazio a illusioni sul fatto che possa farsi guidare verso il socialismo. L’acquisizione dei diritti tramite una rivoluzione democratica spingerebbe semmai alla conservazione del sistema liberale, con la consapevolezza, ottenuta proprio grazie al marxismo, che il periodo di egemonia borghese verrebbe presto o tardi superato in favore del socialismo. Pertanto la borghesia russa si trasformerebbe in una forza controrivoluzionaria, pronta a sfruttare il terreno democratico per giungere a un compromesso con l’autocrazia zarista, anziché rovesciarla, trovando il modo di attuare una modernizzazione controllata dall’alto e in opposizione alle rivendicazioni di carattere socialista del proletariato. Il progetto di una rivoluzione democratica propedeutica a quella socialista, insomma, può essere realizzato in Russia solo da una forza che abbia come obiettivo concreto il socialismo stesso, agendo così da garante per un processo unico e continuo; questa forza è il Partito Socialdemocratico che, in quanto avanguardia del proletariato, aiuta quest’ultimo a realizzare una rivoluzione democratica contro la borghesia, anziché con essa.
Il problema fondamentale è che la Russia non è però pronta per una rivoluzione socialista. Il cammino verso il socialismo comporta una trasformazione democratico-borghese sul piano politico, cui però non corrisponde la trasformazione economica; il processo unico dell’analisi leniniana è rischioso, in quanto nel paese non ci sono i mezzi di produzione sufficientemente sviluppati per consolidare la futura società socialista. Per questo è indispensabile che la rivoluzione non si risolva soltanto in Russia, ma che si diffonda al livello internazionale, soprattutto nei paesi di capitalismo avanzato dove la classe lavoratrice è già cosciente e predisposta al socialismo. Sebbene ai primi del Novecento il marxismo sia in ribasso nella cultura politica europea, soprattutto tedesca, lasciando spazio al revisionismo riformista, i bolscevichi sono convinti che il successo di una rivoluzione socialista nel loro paese possa risvegliare lo spirito di rivolta delle masse sfruttate, facendo scoppiare la rivoluzione in Europa. In questo modo, il proletariato russo ancora impreparato riceverebbe l’aiuto dal proletariato internazionale per costruire il socialismo.
La rivoluzione del 1905
La situazione socio-politica russa, all’inizio del Novecento, è tutt’altro che tranquilla. I processi di modernizzazione e lo sviluppo capitalistico in atto nell’economia e nelle forme sociali, non trovando sbocchi nella possibilità di riforme, aumentano la pressione e lo scontro con lo zarismo, sfociando in nuove agitazioni nelle campagne e nelle città e ridando persino vita alle pratiche terroristiche dei socialisti rivoluzionari. Per di più l’Impero è in guerra col Giappone: un conflitto per il controllo in Oriente di alcune zone vicino alla Corea, che nelle intenzioni del regime dovrebbe anche risvegliare il patriottismo e mettere a tacere le agitazioni sociali, ma nella realtà viene percepito dalla popolazione come una questione coloniale di poca importanza. La sonora sconfitta patita dalla Russia rende evidente la totale impreparazione dell’esercito e del regime stesso, con perdite enormi di uomini e risorse, fomentando ancor di più il fuoco della ribellione.
L’incapacità dell’autocrazia di comprende la realtà del proprio paese raggiunge il culmine nel gennaio del 1905: a seguito di uno sciopero generale cui aderiscono oltre duecentocinquantamila operai, il sindacato autorizzato “Unione dei lavoratori di fabbrica” organizza una marcia a Pietroburgo per portare una petizione allo Zar Nicola II chiedendo la concessione di riforme politiche ed economiche, scritta alla maniera tradizionale delle suppliche al sovrano. Il Ministero dell’Interno non ha autorizzato la manifestazione, quindi l’esercito imperiale apre il fuoco e reprime con brutalità una manifestazione pacifica, scandita da inni sacri e icone religiose, lasciando a terra centinaia di morti e migliaia di feriti. La reazione a questa violenza inaudita è una sollevazione generale, cui si accompagna la nascita di sindacati autonomi, partiti politici ben definiti e la creazione di una nuova forma di democrazia assembleare di base, il soviet (“consiglio”), un organismo rassomigliante al mir delle comunità rurali, in cui operai e in seguito anche soldati si riuniscono per discutere delle azioni da intraprendere.
I disordini continuano a espandersi in tutto il territorio dell’Impero, coinvolgendo tutte le classi sociali e le diverse nazionalità; Nicola II concede la creazione della Duma, una camera di rappresentanti di varia estrazione, e fa redigere un manifesto in cui concede altresì alcuni diritti civili fondamentali, senza per questo lasciare spazio ad alcun discorso costituzionale. Moderati e radicali tornano a dividersi, continuano ammutinamenti di soldati e marinai, così come la repressione dei disordini. Il soviet di Pietroburgo diventa presto una sorta di parlamento “parallelo”, mentre anche in altre città i comitati di sciopero si trasformano in soviet che prendono in carico le funzioni pubbliche. I tentativi di cooperazione tra città e campagna però non riescono e il fronte rurale cede, in quanto meno organizzato; le truppe imperiali, una volta pacificate le campagne, riescono a schiacciare le resistenze militari nelle città. Ripreso il controllo, il regime restaura molte forme del vecchio potere, ridimensiona la Duma affiancandole un Consiglio di Stato dominato dallo Zar, ma in qualche modo l’autocrazia è costretta a cedere sul parlamentarismo, varando una “legge fondamentale” nell’aprile del 1906. Da questo momento fino all’inizio della Grande guerra, la Duma sarà sciolta e convocata almeno quattro volte, prima di essere bloccata del tutto.[26]
Nel decennio successivo a questa prima rivoluzione russa del Novecento, i partiti politici assumono caratteri moderni nell’organizzazione e nel funzionamento; il POSDR, da cui erano già usciti diversi gruppi in rotta con gli iskristi, continua a essere scisso nelle due fazioni di Lenin e Martov, aggravando le cose in occasione del III Congresso, cui partecipano i soli bolscevichi (in questa occasione viene modificato l’art. 1 dello Statuto nella versione di Lenin), mentre i menscevichi rifiutano gli inviti per protesta, organizzando una Conferenza separata; nel IV, in cui viene sancita ufficialmente l’adozione del centralismo democratico, si tenta una ricomposizione e i menscevichi ottengono anche la maggioranza, ma la fondazione di un nuovo giornale bolscevico, Il proletario, sposta nuovamente il centro di potere. Tra il V Congresso e le varie Conferenze, il dissidio torna ad essere insanabile e dal 1912 le due fazioni operano come partiti distinti.[27]
L’altra anima della rivoluzione
Anche all’interno del bolscevismo diverse correnti si formano con intenti e visioni diverse, le più importanti delle quali sono l’empiriomonismo di Aleksandr A. Bogdanov e la “costruzione di Dio” afferente al gruppo di Maksim Gorkij. Le due visioni arrivano a collimare nell’esperienza della Scuola di Capri e l’affascinante tentativo di creare una cultura completamente proletaria che unisca la spiritualità religiosa, rivista in chiave terrena, con la coscienza critica del socialismo, in alternativa alla cultura borghese – e alle idee di Lenin.[28]
Dopo il fallimento della rivoluzione del 1905 e il periodo reazionario che si attesta dal 1907 (e costringe alla fuga o alla prigione molti esponenti), le dispute sulle tattiche e le strategie da adottare in vista di una nuova rivoluzione dividono i bolscevichi in due ali: Bogdanov è a capo dell’ala sinistra, radicale, e argomenta che nel proletariato non possono far breccia le astratte formule marxiste, esso deve prendere coscienza di ciò per cui vale la pena lottare attraverso una visionarietà ideale, che restituisca il senso della rivoluzione, la conquista dell’utopia, la formazione dell’uomo nuovo, un futuro migliore della miseria presente; questo, più che discorsi e formule economiche, può riaccendere la scintilla del fervore rivoluzionario.[29] La produzione filosofica di Bogdanov approfondisce la distanza ideologica dalle posizioni di Lenin, tramite la reinterpretazione del marxismo alla luce dell’empiriocriticismo sviluppato da E. Mach e R. Avenarius. La teoria della conoscenza empiriocriticista è compatibile con il marxismo, sostiene Bogdanov, in quanto riconcilia il materialismo con l’idealismo, avendo annullato sul piano della conoscenza la distinzione tra fenomeno fisico e fenomeno psichico, ritenuta una falsificazione dell’esperienza, laddove tra individuo e ambiente non vi è separazione reale.
L’unione di marxismo ed empiriocriticismo, cui dà il nome di empiriomonismo, si fonda sul concetto di esperienza come principio cardine della realtà: per Bogdanov l’esperienza esiste come frutto del lavoro con cui l’individuo si adatta all’ambiente; il mondo dei fenomeni diviene allora il frutto del lavoro sociale di trasformazione della natura in base alle necessità e alla soddisfazione degli interessi dell’umanità. L’esperienza socialmente organizzata corrisponde alla dimensione fisica, quella individualmente organizzata alla dimensione psichica, e il lavoro sulla natura è il momento in cui le due esperienze si rivelano unite. Quando si verifica uno scarto tra le due dimensioni, ossia la falsa percezione che queste siano separate, l’espressione sociale di questo scarto è la divisione in classi; l’identità delle due dimensioni è invece espressa nel collettivo, che diventa così il principio alla base del proletariato. Esso rende possibile la riorganizzazione dell’esperienza sociale per la soddisfazione degli interessi dell’umanità, arrivando a eliminare i limiti imposti all’uomo dalla natura. Il compito della filosofia, in questo sistema, è di creare una scienza dell’organizzazione dei processi di produzione e socializzazione, intesi come processi universali. La rivoluzione politica, a questo punto, si rivela inadeguata e insufficiente a raggiungere questo risultato, che ha invece la necessità di una costante crescita culturale, nello specifico di una cultura proletaria originale.[30]
Uno dei sostenitori più entusiasti delle prospettive aperte da questo sistema filosofico è Gorkij, il quale fa parte di un gruppo di marxisti, i bogostroiteli, ossia i “costruttori di Dio”, comprendente tra gli altri A. V. Lunačarskij e V. A. Bazarov, interessati a una particolarissima forma di commistione tra socialismo e religione. Riprendono l’idea di Feuerbach secondo cui l’uomo ha alienato da sé l’essenza della propria natura per proiettarla in una realtà trascendente cui dare il nome di Dio, e su questa idea elaborano una sorta di ateismo religioso, intriso della suggestione nietzschiana sulla trasvalutazione di tutti i valori che però trova l’energia vitale necessaria nella collettività in lotta per una nuova umanità solidale, piuttosto che in una individualità ribelle e anticonformista. Nel suo racconto Confessione, Gorkij descrive i “costruttori di Dio” come coloro i quali costruiscono un nuovo concetto di Dio, fatto di ragione e bellezza, che esiste nell’uomo e non al di fuori di esso, in opposizione a chi, bramoso di dominio, usa l’idea di un Dio esterno all’uomo per soggiogare il mondo. Questi costruttori sono i lavoratori, che creano Dio dalla potenza del collettivo e lo aiutano a prendere coscienza della lotta per la divina costruzione universale; altre scene del racconto rendono metaforicamente l’idea della possibilità di compiere miracoli attraverso la fede ardente nelle proprie capacità, perché un popolo unito in un comune sentimento di amore e di giustizia rigenera se stesso nella forma di Dio.
I “costruttori di Dio” e Bogdanov si incontrano idealmente e personalmente nell’esperienza della Scuola di Capri, allorché Gorkij, in un periodo di cure sull’isola italiana durante il 1909, ha l’idea di fondare una scuola di partito con cui promuovere lo sviluppo della cultura proletaria attraverso lo studio delle arti, della filosofia e della spiritualità. Invita sia Bogdanov che Lenin a farne parte, riuscendo a farli incontrare in un’occasione che segnerà le sorti della rivoluzione russa: le discussioni ideologiche tra i due capi bolscevichi si svolgono nel corso di una serie di partite a scacchi nella villa di Gorkij, assurgendo a partita simbolica tra due concezioni del bolscevismo che si attestano ben presto come del tutto opposte.[31] Bogdanov e i “costruttori di Dio” costituiscono la sinistra del partito, sono radicali sul piano ideologico rispetto al pragmatismo leniniano, e ritengono le loro posizioni filosofiche meglio rispondenti alle esigenze dell’attivismo rivoluzionario; riescono infatti a far convivere il fervore fideistico delle visioni puramente ideali con la più rigorosa organizzazione, di cui la Scuola di Capri è il perfetto esempio. Lenin dal canto suo rigetta la possibilità di conciliare il marxismo con la religione e contro la filosofia di Bogdanov e i bogostroiteli scrive Materialismo ed empiriocriticismo, in cui lo accusa di introdurre elementi indebiti dell’idealismo nelle concezioni del materialismo dialettico; sostiene che la teoria marxiana della conoscenza si basa sul principio del rispecchiamento, per cui le percezioni e le rappresentazioni sono immagini di fenomeni la cui esistenza è indipendente dalla coscienza e dal pensiero. Sebbene in questa critica Lenin decurti almeno in parte il marxismo dei suoi stessi elementi dialettici[32], il risultato politico è di convincere il partito bolscevico ad espellere Bogdanov. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, Bogdanov e il gruppo di Gorkij tornano a occuparsi della cultura proletaria fondando il Proletkult, l’organizzazione artistica e letteraria volta a creare una psicologia collettivistica contrapposta all’individualismo borghese.
3) 1917. Dal Febbraio all’Ottobre
Le rivoluzioni del 1917 scoppiano in un quadro di crisi resa irreversibile dalla Grande guerra. La decisione dell’Impero russo di entrare in guerra, tra l’altro al fianco di potenze liberali quali la Francia e il Regno Unito, contro gli Imperi autocratici prussiano e austro-ungarico, è dettata da interessi commerciali e geopolitici della stessa entità di quelli che avevano spinto alla guerra contro il Giappone. Dello stesso livello, se non peggiore, sono però anche le forze armate, che sin dai primi mesi di conflitto si rivelano impreparate e inefficienti. Una eclatante successione di sconfitte, con perdite enormi tra morti e feriti, oltre a deficienze gravi nell’equipaggiamento e approvvigionamento dei soldati, porta nel giro di due anni alla quasi totale dissoluzione dell’esercito. Nel 1916 la tensione sociale è in costante aumento, il divario tra le città e le campagne cresce ed è aggravato dall’ostilità tra operai e contadini, mentre l’inflazione è fuori controllo; la situazione disastrosa al fronte, dove i tedeschi continuano a conquistare vaste regioni, spinge la popolazione a schierarsi contro la guerra con proteste e scioperi sempre più frequenti, che il governo reprime brutalmente. La crisi del sistema di controllo statale diventa lampante quando iniziano a verificarsi defezioni nella polizia e nell’esercito, con i soldati che si rifiutano in varie occasioni di sparare sui manifestanti.
Il 1917 si apre con una crisi alimentare senza precedenti, che impone il razionamento con tessere e file per l’approvvigionamento, cui però non si riesce a far fronte. Una nuova ondata di proteste e rivolte fomenta lo sciopero delle officine Putilov[33], a Pietrogrado[34], che in pochi giorni coinvolge un numero enorme di operai. La Rivoluzione di Febbraio costituisce la prima rivoluzione di massa dopo il gennaio del 1905, cui partecipano larghi strati della popolazione: il 23, circa novantamila operai in sciopero si uniscono alle donne che manifestano per la Giornata internazionale della Donna[35]; il 24 gli scioperanti salgono a duecentomila; il 25 lo sciopero è generale. Il 26 si diffondono gli scontri armati, ma gran parte dei soldati fraternizza con gli insorti. Infine, il 27, gli insorti occupano la Fortezza di Pietro e Paolo, liberano i prigionieri politici e saccheggiano l’armeria. Lo Zar, tornato dal quartier generale, ordina di sciogliere la Duma, nonostante il parere contrario dei suoi ministri, ma i deputati si rifiutano di obbedire, si alleano con il rinato Soviet degli operai e dei soldati di Pietrogrado e formano il famoso Governo provvisorio, di orientamento liberale. Ai primi di marzo, Nicola II abdica, il granduca Michail rinuncia al trono e la storia dello zarismo si chiude definitivamente. La famiglia reale viene arrestata pochi giorni dopo.
La portata della Rivoluzione di Febbraio è spesso stata sottovalutata e, come talvolta accade con i giudizi dati in epoche successive, ritenuta semplicemente il preludio di quella d’Ottobre; in realtà è un evento autonomo, con caratteristiche peculiari e gravido di possibilità, almeno all’inizio. Con essa cade un’autocrazia durata trecento anni, si passa alla forma repubblicana, si riconoscono pienamente i diritti civili a lungo attesi, aprendo a possibilità democratiche mai sperimentate in precedenza. È una rivoluzione in gran parte spontanea, di amplissima partecipazione popolare e basata sulla commistione di disperazione costante, anelito al cambiamento e desiderio di pace, tanto al fronte quanto in casa. Ogni evento delle giornate di Febbraio è stato provocato da operai, soldati e contadini e molti dei susseguenti cambiamenti di rotta è stato frutto di un movimento popolare di massa, spesso disorganizzato e privo di una coscienza esatta dell’azione, a fronte di una classe politica invero colta alla sprovvista: nessuno dei partiti organizzati, nemmeno i bolscevichi, si aspettava una rivolta vittoriosa come questa.[36]
La particolarità della situazione rivoluzionaria è ben evidenziata dal modo in cui il potere si trasferisce dall’autocrazia ai rappresentanti del popolo. Si costituiscono nello stesso giorno il Governo provvisorio, formato dagli eletti della Duma (generalmente di orientamento liberale), e il Soviet degli operai e dei soldati, formato dai rappresentanti di fabbrica (che riunisce menscevichi, socialisti rivoluzionari e vari senza partito). Entrambi gli organismi hanno una propria legittimità e rappresentano rispettivamente la borghesia liberale e il coacervo di fazioni socialiste e anarchiche proletarie. Si attesta così una dualità di potere che si regge su un equilibrio alquanto precario: nei primi tempi, gli interessi dei due organismi sono virtualmente identici e questo permette la prospettiva della convocazione di una Assemblea costituente; ma nel momento in cui appaiono le contraddizioni, il conflitto diventa inevitabile. Il Governo provvisorio ha in mano il controllo politico istituzionale, il Soviet quello militare, dei trasporti e delle comunicazioni.
L’uomo più in vista del Governo provvisorio è A. F. Kerenskij, unico socialista, impegnato in politica sin dal 1905, in qualità di avvocato difensore di vari prigionieri politici. Appartiene ai trudovichi (letteralmente “lavoratori”, ma traducibile come “laburisti”), un gruppo del Partito dei socialisti rivoluzionari che unisce tendenze populiste e nazionaliste in difesa degli interessi della piccola borghesia. Sebbene contrario ai crediti di guerra, Kerenskij riconosce la necessità di difendere il territorio russo. La sua abilità oratoria e la sua opposizione all’autocrazia lo hanno presto reso molto popolare, tanto da essere stato arrestato e poi tenuto d’occhio dalla polizia per tutto il periodo di attività parlamentare, fino al Febbraio, quando si afferma come capo rivoluzionario figura in certo modo super partes tra i liberali e i socialdemocratici. Nominato Ministro della Guerra, Kerenskij si prodiga per la continuazione del conflitto, andando apertamente contro le rivendicazioni popolari. La motivazione è la difesa della patria e delle conquiste democratiche della rivoluzione, cui segue l’organizzazione di un’offensiva militare nel corso del mese di luglio, detta “Offensiva Kerenskij”, che dopo un iniziale successo si conclude con l’ennesima, dura sconfitta russa.
Sul fronte dei soviet, i bolscevichi sono inizialmente in netta minoranza, dato che Lenin e diversi altri rivoluzionari sono bloccati all’estero da tempo; ma la risonanza delle giornate di Febbraio preoccupa gli Imperi centrali, che temono una ripresa della fiducia nazionalista in Russia e quindi una nuova offensiva. Coscienti delle proteste popolari russe contro la guerra e delle strategie pacifiste dei socialdemocratici, le autorità tedesche decidono di far rientrare in patria diversi rivoluzionari, tra i quali Lenin, su un treno speciale[37], sperando che la sua azione politica sia coerente con la critica della guerra. Alla metà di aprile, il capo dei bolscevichi arriva a Pietrogrado trovando un partito molto propenso al compromesso con la maggioranza menscevica e con il Governo, nel quadro della dualità di potere; quindi espone un cambio di tattica nelle famose Tesi di aprile[38], costituenti il nucleo del futuro programma bolscevico. In questo documento viene innanzitutto condannata l’idea di continuazione del conflitto come “difesa della rivoluzione” (il cosiddetto difensismo), in quanto la guerra è strettamente legata gli interessi del capitale, dunque è una guerra imperialista[39] e appoggiarla vuol dire rinunciare in via definitiva alla possibilità del passaggio alla fase socialista della rivoluzione. Si ribadiscono la nazionalizzazione e la redistribuzione delle terre, la soppressione dell’esercito, la creazione di un’unica banca nazionale e il controllo della produzione sociale da parte dei soviet. E il punto più importante: “la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai Soviet dei deputati operai”, trasformato nel celebre slogan “tutto il potere ai Soviet”, che impone la fine della dualità di potere, la rottura con il Governo provvisorio e la continuazione della rivoluzione verso il socialismo.
Naturalmente, Lenin è anche cosciente delle difficoltà di attuare queste tesi senza un “ostinato e paziente” lavoro di “spiegazione” degli errori politici del Governo provvisorio e della maggioranza menscevica, ponendo in primo piano il lavoro politico a breve scadenza rispetto a qualsivoglia azione sul medio e lungo termine. Le sue tesi sono avversate da molti esponenti dei Soviet, in particolare da Plechanov, ormai in completa opposizione ai bolscevichi, e dal Governo provvisorio, che vede in questo programma la longa manus del nemico tedesco, accusando pertanto Lenin di essere un agente al soldo della Germania. In luglio, con l’inizio dell’Offensiva Kerenskij, a Pietrogrado riprendono le manifestazioni per la pace, che si trasformano presto in una rivolta; i bolscevichi sono contrari, ritenendola prematura, ma tentano comunque di prenderne il controllo per incanalarla verso obiettivi realistici. La rivolta delle “giornate di Luglio”[40] è repressa dai reparti dell’esercito fedeli al Governo e i bolscevichi sono messi fuori legge. Lenin fugge in Finlandia.
Il disastro dell’Offensiva Kerenskij, intanto, affossa del tutto la residua popolarità del Ministro e del Governo provvisorio. In agosto un generale, Kornilov, tenta di accordarsi con Kerenskij per riportare l’ordine con un intervento militare, ma una volta compreso il rischio di un colpo di stato controrivoluzionario, il Ministro rifiuta e si ritrova con le truppe di Kornilov a marciare su Pietrogrado. Sono proprio i bolscevichi del soviet cittadino a organizzare le difese e a contare con un ampio appoggio della popolazione, sconfiggendo il generale. Il partito ne esce enormemente rafforzato e in poco tempo conquista la maggioranza nel Soviet; in settembre ne viene eletto presidente Lev Trotsky, appena uscito dal carcere e passato dai menscevichi ai bolscevichi.
Tutto il potere ai bolscevichi
Il periodo tra settembre e ottobre vede alcune novità. Il Soviet di Pietrogrado costituisce un comitato militarerivoluzionario che lo pone in contrasto diretto col Governo provvisorio; la dualità di potere non è più solo politica, contando entrambi gli organismi su proprie guarnigioni armate. Inoltre, entrambi emanano direttive che spesso si annullano a vicenda, contribuendo a rendere ancor più difficili i rapporti. La possibilità di prendere il potere è causa di tensioni all’interno dei bolscevichi, perché mentre Lenin vede maturata la capacità del popolo di prendere in mano il proprio destino e quindi di decidere al di là della mediazione degli stessi soviet, altri come G. E. Zinoviev e L. B. Kamenev sono convinti che una vittoria relativamente facile sarebbe soppiantata dalle difficoltà di far fronte alla crisi di approvvigionamento delle città, preferendo all’insurrezione un’alleanza strategica con altri partiti socialisti, in vista dell’elezione dell’Assemblea costituente. Le voci di una insurrezione provocano la reazione sdegnata di Gorkij, che scrive articoli molto duri su una rivista socialista indipendente, paventando il caos totale, dovuto all’immaturità delle coscienze civili e morali delle fasce di popolazione che avrebbero partecipato[41]; qui si ritrova la diversa concezione rivoluzionaria su quali siano i requisiti adatti per passare all’azione, se cioè la “maturità” debba essere culturale, dei soggetti in quanto persone, o delle condizioni materiali e sociali, che permettono di far progredire le persone al seguito degli eventi storico-politici. Come Gorkij la pensano i liberali, i menscevichi e una parte dei bolscevichi; il resto del partito leninista, dopo diverse riunioni preparatorie, decide invece di assumere in concreto il ruolo di avanguardia rivoluzionaria e provocare quella trasformazione che dovrà avviare la costruzione del futuro socialista.
Il clima della capitale riflette quello dell’intero paese. La Rivoluzione di Febbraio è stata un ciclone che ha spazzato via il vecchio regime e ne ha abbattuto o nascosto i simboli, ma in generale ogni cosa è rimasta in uno stato di sospensione, in cui la guerra sembra non avere fine, la fame continua a fomentare rivolte, il Governo continua a reprimere il dissenso con le armi[42]. In questo periodo iniziano le requisizioni forzate di grano dalle campagne, mentre l’attività politica di base, con propaganda talvolta irresponsabile e agitazioni di ogni tipo si sperimenta, in effetti, una ebollizione sociale costante, continuata anche dopo la risposta alle “giornate di Luglio” e accresciuta con l’Affare Kornilov. Il punto è che la decisione dei bolscevichi di passare all’azione, certamente sotto la forte spinta di Lenin, non è basata solo ed unicamente su una posizione ideologica, ma sulla concreta situazione sociale che ha permesso a questo particolare partito di recuperare credito e dunque, ora, di porsi alla testa di un movimento di operai e di soldati sufficientemente vasto da dare senso all’azzardo del potere. Il Governo Provvisorio ha rapidamente perso la sua legittimità agli occhi delle fasce sociali artefici del Febbraio e le possibilità di una evoluzione democratico-borghese della Rivoluzione sono infime. Le alternative realistiche sono o una nuova fase rivoluzionaria improntata al socialismo (alla cui testa potrebbero mettersi tanto i bolscevichi, quanto i socialisti rivoluzionari), o una dittatura militare reazionaria che recuperi alcune forme di autoritarismo pre-rivoluzionario conciliandole con una forma repubblicana sotto il controllo dell’esercito.
In ottobre, l’ebollizione sociale raggiungere il culmine; a differenza di luglio, i tempi sembrano sufficientemente maturi per passare ai fatti con maggiori probabilità di successo. Trotsky è il principale pianificatore dell’insurrezione, che viene fissata nella stessa data del II Congresso panrusso dei soviet. Nella notte tra il 24 e il 25 ottobre, le truppe rivoluzionarie occupano tutti i punti nevralgici della città: le poste, la centrale telefonica, la stazione ferroviaria, la banca di Stato, i palazzi governativi e infine il Palazzo d’Inverno, sede del Governo provvisorio; i ministri sono arrestati, Kerenskij riesce a fuggire dopo aver opposto un ultimo tentativo di resistenza. Al mattino viene dichiarata la Repubblica dei Soviet. La rapidità e la coordinazione dei reparti bolscevichi rendono l’Ottobre una delle insurrezioni meno violente della storia, anche se di lì a poco gli eventi prenderanno una piega drammatica.
Il giorno dopo, 26 ottobre, i rivoluzionari mantengono le promesse dello slogan “pace con la Germania, terra ai contadini” tramite due decreti fondamentali, emanati dal neoeletto Consiglio dei commissari del popolo (Sovnarkom), le cui implicazioni sono però lontane dal risolvere del tutto la situazione. Il Decreto sulla pace, primo atto ufficiale del governo degli operai, dei soldati e dei contadini, contiene due appelli: uno alle potenze belligeranti e in particolare alla Germania per la cessazione delle ostilità e l’inizio delle trattative, senza annessioni né indennità territoriali ed economiche; un altro al proletariato dei paesi europei più avanzati, affinché si unisca alla Repubblica sovietica per affrancare il mondo dalla guerra e costruire insieme il futuro socialista. Sebbene in questo caso specifico non si parli di rivoluzione europea, il coinvolgimento del proletariato internazionale nel processo di pace ne può diventare il preludio, comunque superando la crisi nazionalista causa del fallimento della Seconda Internazionale; intanto, si gettano le basi per la controversa pace di Brest-Litovsk. Il successivo Mandato contadino sulla terra ratifica in via formale il processo già realizzato di fatto dai contadini dopo il Febbraio: abolizione dei diritti di proprietà fondiaria, confisca e redistribuzione degli appezzamenti secondo le misure stabilite dai soviet rurali, mantenimento dell’ordine pubblico durante il passaggio di regime. Nei successivi due anni, circa centocinquanta milioni di ettari saranno occupati e redistribuiti; questo processo di riforma radicale è in concreto un passaggio della terra dai grandi proprietari ai comitati contadini, ossia la formazione della piccola proprietà terriera che, nei dibattiti socialdemocratici degli anni precedenti, è posta all’origine della formazione della borghesia. I bolscevichi, in sostanza, accettano il rischio della transizione borghese, incanalandola però in un tentativo di conciliazione tra due mondi ancora in conflitto, la città e la campagna, gli operai e i contadini, entrambi rivoltosi, attivi e reciprocamente ostili.
Un pragmatismo che si rivela fondamentale nella difesa della rivoluzione, a maggior ragione se si tiene in conto l’attività delle organizzazioni operaie a partire dal mese di marzo, con l’intromissione dei comitati di fabbrica nei processi di produzione e le spinte per l’autogestione, fino alle rivendicazioni di ripartizione delle fabbriche come proprietà collettiva, in maniera analoga a quanto accade nelle campagne; ma anche questa tendenza, almeno in parte, si rivela in contraddizione con i piani per uno sviluppo industriale generale, che richiede accentramento e piani direzionali su larga scala, a opera di uno Stato-imprenditore i cui obiettivi pongono già un limite all’autogestione operaia. I decreti sulla giornata di otto ore e il controllo operaio, pur ratificando anche in questo caso processi già in atto, non risolvono le contraddizioni sorte da questa difformità di obiettivi tra governo e organizzazioni operaie, aumentando le tensioni tra nuovi scioperi e misure disciplinari in risposta. A questo stato di cose si aggiunge la decisione più che controversa di sciogliere l’Assemblea costituente, convocata già dal Governo Provvisorio per la fine di novembre e rinviata al gennaio del 1918: la netta predominanza di deputati eletti tra le fila dei socialisti rivoluzionari, che come si è visto è l’altro grande partito radicato nelle masse, spinge i bolscevichi a non accettare alcun compromesso, negando così la possibilità di dare un fondamento giuridico al nuovo Stato tramite l’equilibrio delle forze in campo[43].
In ogni caso, il tempo per le decisioni politiche pacifiche si esaurisce quasi subito. Il Trattato di Brest-Litovsk sancisce una pace con la Germania a condizioni durissime, che prevedono la cessione di vasti territori ricchi di risorse e il pagamento di sei milioni di marchi per risarcimento di guerra; nel frattempo, le forze controrivoluzionarie si riorganizzano nell’esercito dei “bianchi”, che aggrediscono da più punti il territorio sotto il diretto controllo dei bolscevichi (corrispondente grossomodo alla Russia europea). Generali quali Krasnov, Denikin, Vrangel, Judenič e Kolčak, riportano vittorie importanti contro i “rossi” grazie all’aiuto delle potenze straniere, che vedono nel bolscevismo un pericolo simile a un’epidemia di peste: il governo degli operai, dei soldati e dei contadini diventa un mito che alimenta le speranze nella rivoluzione europea e mondiale, le sue azioni scompaginano consolidate usanze diplomatiche con la pubblicazione di trattati segreti e ricusazioni di impegni presi dall’autocrazia zarista (o dal Governo Provvisorio), per cui è necessario distruggere un tale governo e insieme a esso le velleità insurrezionali dei lavoratori in Europa. La Russia diventa una vera e propria “fortezza assediata”, che difende la sua rivoluzione con due organizzazioni destinate a essere i pilastri del futuro potere sovietico: l’Armata Rossa[44], organizzata e diretta da Trotsky contro l’Armata Bianca, e la Čeka[45], la “Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio” diretta da F. Dzeržinskij per colpire il nemico interno.
4) Trionfo e tragedia (1918-1924)
Le complessità del periodo successivo all’Ottobre non possono essere qui trattate in dettaglio. Dobbiamo limitarci ad alcune questioni generali, che segnano le linee di sviluppo ideali e materiali del primo esperimento di alternativa politico-sociale al modello europeo, in un periodo di drammatica sperimentazione, di “esplorazione di territori sconosciuti”[46] che va dal comunismo di guerra alla NEP, alle fondazioni della Terza Internazionale e dell’URSS, fino alla morte di Lenin, sullo sfondo tragico della guerra civile.
Bianchi contro Rossi
La guerra civile è il quadro d’insieme in cui si svolgono gli eventi decisivi della Rivoluzione russa, intesa nel suo complesso. Il primo conflitto mondiale è finito, ma la Russia continua a essere devastata dai combattimenti interni, che iniziano a cavallo con il 1918 e si protraggono fino all’ottobre del 1922. La situazione dei bolscevichi è la più difficile, in quanto agli attacchi del nemico si aggiungono la cronica mancanza di approvvigionamenti e il conflitto tra città e campagna per il controllo del grano; l’Armata Rossa, pur basandosi sulle milizie operaie create dai soviet, è scarsamente attrezzata e male addestrata, dovendo continuamente arruolare uomini di ogni tipo cui insegnare la disciplina e la tecnica. Trotsky riesce a cooptare ex ufficiali zaristi, contro la volontà delle fazioni più radicali, per formare un esercito via via meglio organizzato ed efficiente. L’Armata Bianca, dal canto suo, può contare sui vecchi quadri dell’esercito e le truppe rimaste unite dal fronte, nonché sul concreto sostegno delle potenze straniere, sia economico che militare.
I combattimenti infuriano su tutti i fronti: Kornilov torna alla carica da sud, sostituito dopo la morte (1918) da Denikin e Krasnov; sempre da sud attaccano i cosacchi e reparti di ucraini e bielorussi, mentre truppe inglesi e francesi aiutano Vrangel. Da est, Kolčak arriva al comando di un esercito ben rifornito dagli stranieri e costituisce il pericolo maggiore per i bolscevichi fino alla fine del 1919; anche una legione di soldati cecoslovacchi, in transito verso l’Alaska, si unisce al fronte siberiano. Da nord sbarcano alcuni reparti inglesi, francesi e statunitensi, al fianco di truppe finlandesi fedeli a Judenič; da ovest attaccano polacchi, ucraini e tedeschi. A ciò si aggiungono varie rivolte antibolsceviche nei territori controllati dai Rossi. La violenza di scontri, rappresaglie, massacri e saccheggi è inaudita, il “terrore bianco” è spietato nella caccia ai partigiani bolscevichi nelle retrovie, le truppe di Kolčak e Denikin in particolare commettono atrocità anche per costringere all’obbedienza i contadini diffidenti, mentre i territori conquistati sono sottoposti a dittature reazionarie. L’idea di una Russia restituita alla sua veste tradizionale (oramai nell’ottica di una restaurazione zarista, non più repubblicana e borghese) sembra a portata di mano. Tanto che nel luglio 1918 la brutale esecuzione della famiglia reale, esiliata fino a quel momento a Ekaterinburg, viene decisa dal soviet locale senza il permesso di Mosca (dove si intende svolgere un processo pubblico), per l’arrivo imminente della Legione cecoslovacca e il rischio di liberazione dell’ex-Zar.
La sopravvivenza della Repubblica dei Soviet, in forte svantaggio, è dovuta a diversi fattori. L’Armata Rossa integra sia ex-ufficiali imperiali, sia prigionieri di guerra, tramite la coscrizione obbligatoria, la ricomposizione di gerarchie di comando e il recupero della disciplina militare, accantonando l’idea iniziale delle milizie popolari volontarie. Essa si inserisce in una generale centralizzazione del comando nelle mani del governo, dove la coesione ideologica resta salda nonostante la tensione tra l’ala radicale e quella più pragmatica. Al contrario, l’Armata Bianca è guidata da gruppi il cui unico collante è l’antibolscevismo, ma che per il resto hanno interessi e obiettivi diversi, non trovano un accordo sulla costituzione di un fronte unico, né su chi debba prendere il comando generale delle operazioni. C’è inoltre una fondamentale differenza politica tra Bianchi e Rossi: i controrivoluzionari sono in linea di massima dei restauratori, ovvero sia favorevoli al ripristino del latifondo e dei relativi privilegi, alla supremazia dei grandi-russi in tema di nazionalità e al ritorno della monarchia; questa prospettiva aliena loro ben presto le simpatie dei contadini, che nonostante le vessazioni delle squadre annonarie bolsceviche, non hanno alcuna intenzione di tornare alla situazione precedente. I rivoluzionari per di più riescono a unire la questione sociale, sorta dalla redistribuzione della terra, con la questione nazionale, risvegliando sentimenti patriottici nella difesa della Russia contro un’Armata Bianca foraggiata dalle potenze straniere; allo sciovinismo grande-russo dei Bianchi, oppongono la creazione di un Commissariato alle nazionalità i cui compiti prevedono, da un lato, il diritto all’autodeterminazione dei popoli, dall’altro la riorganizzazione dei territori dell’ex-impero nella Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, in cui tutte le popolazioni non russe sono chiamate a collaborare con Mosca in termini di autonomia federale[47].
La Čeka, d’altro canto, è lo strumento tipico di ogni governo per la repressione dei nemici interni. Oltre alle truppe controrivoluzionarie, il governo bolscevico si ritrova sotto l’attacco di altri oppositori, in particolar modo dei socialisti rivoluzionari, i quali riprendono l’attività terroristica ereditata da Narodnaja Volja. Nel corso del 1918, numerosi attentati portano la loro firma e provocano la morte di diversi esponenti del governo e di suoi alleati, tra cui l’ambasciatore tedesco e il capo della Čeka di Pietrogrado. In agosto, Lenin stesso subisce un grave attentato a Mosca da parte di Fanny Kaplan, che lo considera un traditore della rivoluzione. Altre rivolte e attentati si verificano in diversi distretti, cui la polizia politica risponde con il “terrore rosso”, una repressione straordinaria attuata tramite gli strumenti dell’istruttoria, del tribunale e delle forze armate, piegati all’esigenza di colpire il nemico interno. Ciò implica processi sommari contro vere o presunte organizzazioni controrivoluzionarie, spesso senza verifiche sulla loro effettiva natura, in assenza di difesa legale e con un rigore estremo nella somministrazione delle pene, di solito capitali. Parallelamente, la Čeka combatte la corruzione e la speculazione secondo gli stessi metodi, commettendo anche numerosi abusi. Il potere della Commissione straordinaria si configura come una dittatura di fatto, tesa a spezzare la resistenza del nemico a qualunque costo, in un clima di disordine generalizzato dove non esistono garanzie[48].
Nel complesso, tra gli anni del conflitto mondiale e della guerra civile, la Russia sperimenta una violenza estesa, generale, costante, senza soluzione di continuità, che segnerà il futuro del Paese. Le principali forze in campo seguono la linea di principio, tipica delle guerre civili, per cui l’avversario è privo di qualsiasi legittimità e deve essere annientato; le Armate contrapposte[49] non risparmiano colpi e non si trattengono nell’uso del terrore. Ma in definitiva i bolscevichi dimostrano maggiore capacità organizzativa, repressiva e di mobilitazione, offrendo soluzioni politiche condivise, unità di intenti e coesione tra governo centrale, esercito regolare e soviet periferici.
Costruire il futuro
Le sofferenze della guerra civile incidono fortemente sulla costruzione del socialismo, ma lo scontro con la realtà non riguarda solo le condizioni materiali – miserevoli – dell’economia russa. I bolscevichi sono messi alla prova sul punto più imprevedibile del progetto comunista, la realizzazione di una società senza classi e di un’economia senza mercato. Un territorio inesplorato per cui non vi sono indicazioni ricavabili dalla teoria marxista dei decenni precedenti, incentrata soprattutto sulla critica dell’economia politica, sul superamento dell’irrazionalità degli “spiriti animali” del capitalismo, e solo marginalmente affacciatasi sui possibili scenari futuri, in cui l’economia possa essere razionalizzata per raggiungere la giustizia sociale. Come si è visto, le tendenze teoriche e programmatiche del marxismo russo hanno sempre oscillato attorno ad alcuni punti fermi: la necessità di un adeguato sviluppo economico, la transizione più o meno controllata da una forma sociale a un’altra, il coinvolgimento del proletariato internazionale, l’evoluzione ininterrotta dei processi rivoluzionari. I modi e i tempi con cui lavorare su questi punti hanno causato la divisione in varie correnti, fondamentalmente due: una moderata e una radicale, prima tra liberali e socialdemocratici, poi tra legalisti e rivoluzionari, in seguito tra menscevichi e bolscevichi. Adesso, tra i bolscevichi si scontrano una “destra” e una “sinistra” del partito, la prima più attenta alla soluzione pragmatica dei problemi immediati, la seconda più radicale e sfavorevole a compromessi di sorta, anche se temporanei. Si tratta di correnti con posizioni piuttosto eterogenee e in continuo cambiamento; Lenin e Trotsky sono considerati tra i pragmatici, mentre per la corrente dei “comunisti di sinistra” si possono ricordare N. I. Bucharin e A. M. Kollontaj.
L’opposizione di sinistra si forma già con il Trattato di Brest-Litovks: Trotsky è a capo della delegazione, con il compito di mantenere fede all’impegno per la pace che il Governo Provvisorio aveva accantonato; sebbene la possibilità di una pace senza annessioni né risarcimenti svanisca immediatamente e le condizioni imposte dai tedeschi siano invece pesantissime, il Trattato sembra dare quel necessario respiro al governo rivoluzionario per procedere con le riforme. Ma Bucharin e Kollontaj si oppongono, vedendo nella pace separata con la Germania una capitolazione di fronte all’imperialismo e la rinuncia a trasformare la guerra in rivoluzione europea, ossia continuare a combattere per un diverso fine, quello di sobillare il proletariato tedesco all’insurrezione. La loro fazione è la più internazionalista e spinge per la continuazione al fine di non tradire lo scopo ultimo del bolscevismo. Allo stesso modo si oppongono all’integrazione, voluta da Trotsky, di ex-ufficiali zaristi nella nascente Armata Rossa, che dovrebbe essere piuttosto un esercito partigiano. Mantengono lo stesso atteggiamento intransigente sulle questioni economiche, rifiutando ogni compromesso con gli elementi capitalistici ancora presenti nella realtà russa: Bucharin inizialmente rifiuta la “cautela” di Lenin sulla nazionalizzazione integrale dei mezzi di produzione, rivedendo in parte le sue posizioni all’abbandono, nel 1921, del comunismo di guerra in favore della NEP; Kollontaj invece resta fermamente contraria.
Il pragmatismo di Trotsky e Lenin ha la meglio, ma ciò non vuol dire che vi siano ripensamenti sul piano teorico. La teoria della rivoluzione permanente, elaborata da Trotsky a partire dal 1905, è forse l’elaborazione più compiuta del passaggio dall’autocrazia al socialismo senza necessità di un periodo indefinito di transizione democratica: riprendendo l’idea originaria di Marx di una rivoluzione che non transige con alcuna forma di società di classe, Trotsky sostiene che in ogni fase rivoluzionaria è contenuto il germe della sua fase successiva, perciò la fase democratica è di per sé il preludio alla fase socialista, che a sua volta è il preludio alla liquidazione totale della divisione in classi della società. La differenza con l’idea tradizionale di evoluzione verso la dittatura del proletariato attraverso anni o decenni di rivoluzione democratica, consiste nel ribaltamento del processo dovuto all’arretratezza della borghesia in paesi come la Russia: l’assolvimento dei compiti democratici porta direttamente alla dittatura del proletariato, che diventa essa stessa la via principale verso la democrazia; in tal senso, quest’ultima non è più un fine in sé, bensì il preludio immediato alla rivoluzione socialista, essendovi ora indissolubilmente legata. Il processo che lega democrazia e transizione socialista è perciò unico, organico, dunque permanente verso l’abolizione delle classi[50].
La transizione socialista, secondo il marxismo classico, è la fase in cui il proletariato opera attivamente per la trasformazione della società borghese attraverso la conquista e l’impiego dei mezzi politici predisposti dalla stessa borghesia, primo fra tutti lo Stato; è perciò necessario utilizzare (modificandolo però nella forma e nell’essenza) lo Stato come mezzo per attuare la dittatura del proletariato, ossia l’egemonia delle classi lavoratrici sulla società, in vista dell’abolizione della divisione di classe e quindi, una volta esaurita la sua funzione, dell’estinzione dello Stato stesso. Gli esempi storici di una tale fase transitoria sono praticamente inesistenti: Marx ne aveva avuto un’idea grazie all’esperienza della Comune di Parigi[51] del 1871, evento fondamentale e fonte d’ispirazione per tutti i rivoluzionari a cavallo dei due secoli[52], ma per il resto si tratta di un territorio nuovo, senza coordinate specifiche.
Lenin affronta alcune questioni dell’edificazione del socialismo in uno dei suoi scritti principali, Stato e rivoluzione, uno studio puntuale delle idee marxiste sulla natura, la funzione e l’evoluzione dello Stato, partendo dalle considerazioni di Engels sul sorgere dello Stato dall’inconciliabilità degli antagonismi di classe[53]. La prospettiva dei marxisti a capo della Seconda Internazionale, da lui chiamati sprezzantemente “socialsciovinisti” e “opportunisti”, per cui lo Stato sia una sorta di “arbitro” conciliatore dei conflitti, è il segno della capitolazione di fronte all’organizzazione borghese della società: uno Stato del genere è possibile solo quando le classi hanno una forza grossomodo eguale, quando cioè il conflitto sociale si svolge tra pari, ma la situazione “normale” della società divisa in classi vede una classe dominante usare lo Stato come mezzo per legittimare se stessa e il proprio sfruttamento della classe subalterna, ossia del lavoro salariato. In questo modo, lo Stato diventa una forza che attenua i conflitti nella società mentre si estranea sempre più da essa, ponendosi al di sopra delle classi per mantenerne l’ordine. Da ciò deriva l’istituzione di una forza pubblica che possa agire tramite “corpi separati” dalla popolazione, ossia la polizia e l’esercito, in possesso delle armi e di mezzi specifici come le carceri, cui appartiene il monopolio della violenza. Se si volessero sostituire questi corpi con l’organizzazione armata di tutta la popolazione, in regime di suddivisione in classi si produrrebbe una lotta armata tra le classi stesse. Nel momento in cui la classe lavoratrice si impossessa dello Stato e dei mezzi di produzione, vengono meno le divisioni e gli antagonismi di classe, quindi la funzione dello Stato come strumento di dominio e controllo diviene superflua, pervenendo all’estinzione dello Stato stesso. Lenin sottolinea come nel processo di una rivoluzione il proletariato si impossessi dello Stato borghese trasformandolo in Stato proletario, al fine di esercitare quella pressione necessaria a rendere i mezzi di produzione una proprietà sociale. Solo dopo questa presa di possesso e la sua assicurazione, che vuol dire la resistenza contro i contraccolpi degli sfruttatori spodestati, la funzione dello Stato proletario si esaurisce, scomparendo. Il soggetto storico che attua la rivoluzione è un altro punto che interessa Lenin. Una rivoluzione può infatti essere “popolare”, come quella del 1905, attuata cioè da contadini e operai, ma per essere “proletaria” e tendere quindi al socialismo, deve fondarsi su una alleanza cosciente e coerente dei contadini e degli operai. Il proletariato è dunque la classe lavoratrice che ha preso coscienza del suo ruolo rivoluzionario. Il compito attuale della classe rivoluzionaria, dunque, è la realizzazione dell’eguaglianza relativamente al possesso dei mezzi di produzione; in questa fase permangono, come ha affermato Marx, differenze sostanziali, ma si innesca un movimento di massa progressivo che coinvolge l’intera popolazione nella tensione costante verso la realizzazione dell’eguaglianza reale: quanto più i cittadini partecipano democraticamente all’amministrazione dello Stato, tanto più la macchina statale viene riassorbita nella società civile. A questo punto, la polemica contro gli “opportunisti” della Seconda Internazionale è evidente: Lenin si scaglia in particolar modo contro Kautsky, che in uno scritto successivo denuncerà addirittura come “rinnegato”, per il fatto di privilegiare la via parlamentare e rigettare praticamente in ogni caso la dittatura del proletariato[54].
Sul piano concreto delle sperimentazioni sociali, la Russia bolscevica si distingue per diverse esperienze. Innanzitutto, si dota di una Costituzione dal carattere esplicitamente di classe[55], che dà veste giuridica alle forme di governo dei primi mesi ed enuncia i principi generali su cui si fonda la “Repubblica dei Soviet degli operai, dei soldati e dei contadini”, include una Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato, sancisce l’unione delle classi operaia e contadina. Sul piano dei diritti, istituisce la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, l’eguaglianza dei diritti delle varie nazionalità nella Federazione, la separazione tra Stato e Chiesa e tra scuola e Chiesa, la coscrizione militare obbligatoria, l’internazionalismo proletario, e tutti i diritti e le libertà fondamentali del popolo. La nuova società, fondata sul lavoro, non tollera il parassitismo: il diritto di voto è riservato a chi produce e si guadagna da vivere con un lavoro socialmente utile, negato invece a chi vive di rendita, o di commercio privato, o sfrutta mano d’opera salariata per trarne profitto.
Nel corso del 1918, si fanno importanti passi avanti per la parità di genere, anche grazie all’impegno costate di Kollontaj, la quale è tra le organizzatrici del Primo Congresso delle donne lavoratrici russe, che si occupa di promuovere la partecipazione femminile alla vita pubblica: il Codice della famiglia, approvato in settembre, stabilisce l’uguaglianza di diritti politici e civili tra uomini e donne, dando a queste la possibilità di votare e di essere elette; altri decreti istituiscono il divorzio, il matrimonio civile e la laicizzazione dello stato civile, il diritto all’aborto (nel 1920, poi abolito nel 1936 e reintrodotto nel 1955). Kollontaj si distingue anche sul piano etico, per essere fautrice del “libero amore” e di forme di famiglia diverse dal canone borghese; nello scritto Il comunismo e la famiglia, del 1921, la rivoluzionaria espone, in una serie di considerazioni sulla famiglia nella storia, la sua visione del cambiamento in atto e delle sue future conquiste. L’agevolazione del divorzio, ottenibile nel giro di due settimane anziché di anni, è certo fonte di speranza per le donne costrette a un matrimonio disgraziato, soggette alla violenza del marito o al suo disinteresse per la vita familiare; ma allo stesso tempo è fonte di preoccupazione per quelle donne che ancora vedono nel marito la fonte di sostentamento per la casa e i figli. Kollontaj afferma che queste donne devono emanciparsi da una tale visione, cercare sostegno altrove, nella società e nello Stato, non più nell’uomo: il nuovo Stato operaio ha infatti il compito di sostenere le donne nella loro maternità e nei loro lavori domestici attraverso una serie di istituzioni appositamente create, in cui il lavoro collettivo sollevi le donne dal triplice peso di essere lavoratrici, madri e donne di casa. La forma della famiglia è soggetta all’idea che essa sia immutabile ed eterna; ma in realtà non lo è mai stata e non lo sarà mai: nella storia e nei vari popoli abbondano gli esempi più diversi di organizzazione familiare e amorosa, che solo si ritengono giusti o errati in base a dettami etici e morali legati alla cultura dominante (dalla verginità al matriarcato, dalla poligamia alla castità ecc.). Nella società comunista, il cambiamento dalla forma antica di famiglia dove l’uomo lavora e la donna bada ai figli e alla casa, verso una nuova forma di famiglia “sociale”, è pertanto un cambiamento naturale, dettato dall’abbandono del vecchio stato di cose politico ed economico. Parlare di “distruzione della famiglia” attraverso il divorzio è una forzatura: la famiglia si distrugge in determinate forme e si ricostruisce in altre, come è avvenuto già nella società capitalista, dove la donna è entrata a far parte del ciclo produttivo accanto al marito. Se prima la donna restava in casa, ora il salario del solo marito non basta più a sfamare la famiglia e quindi la moglie diventa operaia nelle stesse fabbriche dove lavora l’uomo; l’espansione del lavoro salariato femminile implica perciò la distruzione della famiglia secondo il modello antico. Durante le ore di lavoro in fabbrica, la casa e i figli sono trascurati, e questi ultimi crescono per strada; nel tempo restante, la donna si sacrifica per recuperare il lavoro domestico perduto, ossia pulisce, cucina e rammenda, divenendo soggetta a un peso triplo che spesso porta alla disperazione. Nella società comunista, secondo la visione di Kollontaj, i compiti della donna al di là del lavoro saranno assolti dalla collettività: per le faccende domestiche, si apriranno ristoranti pubblici accessibili a tutti, lavanderie centrali che laveranno e stireranno, e stabilimenti di riparazioni sartoriali e di altri oggetti di uso quotidiano, riequilibrando così il rapporto tra ore di lavoro e ore di faccende domestiche. Per quanto riguarda i figli, lo sviluppo avanzato di apparati per la cura e l’educazione (scuole, asili, mense, forniture di materiali e vestiti ecc.) sostituiranno gradualmente la collettività alla famiglia nucleare nei compiti di allevamento e cura dei bambini. Lo Stato assicurerà la sussistenza a tutte le madri che hanno figli piccoli (fase di allattamento, primi passi e via dicendo) con l’istituzione di “case di maternità” in cui trovino aiuto tutte le donne, sposate o meno. L’aiuto concreto e costante ai genitori non li separerà dai figli, semmai li aiuterà a riprendersi del tempo per loro stessi, per potersi amare e trovare la felicità cui hanno diritto. La nuova famiglia e il nuovo matrimonio non saranno più una catena, che costringe il lavoratore a scendere a compromessi con il capitale pur di sfamare i figli, come avviene nel capitalismo. Il “libero amore” deriva dalla condizione di eguaglianza sostanziale tra uomo e donna: mentre il matrimonio indissolubile si basa sulla servitù della donna, nello Stato operaio si uniscono due membri della società eguali nei diritti e nei doveri. La famiglia diventa un tutt’uno con la società e perciò di aiuto a tutti i suoi membri, liberati dai fardelli che nel capitalismo opprimono le relazioni familiari e amorose della classe proletaria.
Nel marzo 1919, per tentare di spezzare l’isolamento cui la Russia è costretta, viene fondata la Terza Internazionale. Questo nuovo organismo si presenta come la possibilità di formare un fronte unico contro la reazione europea, superando il disastroso fallimento della Seconda Internazionale e le tendenze “opportunistiche” dei socialisti e socialdemocratici, in particolare tedeschi. Lenin, tracciando il posto di questa Internazionale nella storia, attribuisce alla Prima la costruzione delle fondamenta della lotta proletaria per il socialismo; alla Seconda, nonostante tutto, il merito di aver preparato il terreno per la diffusione di massa del movimento in molti paesi; e quindi alla Terza la costruzione effettiva della dittatura del proletariato, attraverso la fondazione di uno Stato sovietico e il coordinamento dei partiti comunisti diffusi nei paesi capitalisti. Per Lenin, l’idea stessa di dittatura del proletariato, come formulata da Marx, viene per la prima volta tradotta in pratica, senza mediazioni, grazie (e non malgrado) alla contraddizione fondamentale tra l’arretratezza della Russia e il suo salto oltre la fase borghese verso il socialismo, cosa che non si era finora rivelata possibile nei Paesi economicamente avanzati. La componente rivoluzionaria è il tratto più marcante di questa nuova Internazionale, tanto da stimolare le divisioni interne ai partiti socialisti e socialdemocratici che ancora sono vicini alle idee concilianti verso la democrazia borghese; nel 1921 in Italia, per esempio, si avrà la scissione della corrente radicale nel Partito Socialista Italiano, che si costituirà nel Partito Comunista d’Italia. L’importanza della Terza Internazionale, soprattutto nei primi tempi, risiede appunto nella compattazione di un fronte unito tra partiti operai di tutte le nazioni, come mai si era visto fino a quel momento e, forse, come mai più si vedrà in seguito[56].
Comunismo di guerra e Nuova Politica Economica
Gli anni Venti sono segnati da due grandi sperimentazioni economiche. Il “comunismo di guerra” (termine adottato successivamente per descrivere il periodo economico che va dal 1918 al 1921) è la risposta all’emergenza creatasi con lo scoppio della guerra civile: persa l’occasione di un graduale assestamento dell’economia dopo il conflitto bellico e la rottura rivoluzionaria (per cui i bolscevichi avevano tentato di elaborare una lunga “transizione controllata” all’economia socialista, consci delle difficoltà economiche attuali), ora il governo si getta a capofitto in un esperimento radicale. L’emergenza infatti costringe, in linea generale, qualsiasi governo ad adottare misure eccezionali; anche per i bolscevichi si pone la necessità di militarizzare la produzione e la distribuzione, nel quadro dell’accerchiamento interno ed esterno su tutti i fronti. L’eccezionalità delle misure, tuttavia, apre la strada alla possibile costruzione immediata di forme comuniste di organizzazione[57].
Bucharin è considerato in questi anni uno dei maggiori teorici del partito; nello scritto del 1920 L’economia del periodo di transizione, teorizza la necessità della coercizione “extraeconomica” nel passaggio da una struttura produttiva a un’altra. Individua cioè nella “violenza rivoluzionaria” la forza che distrugge i vecchi tipi di rapporti socio-politici che impediscono il cambiamento; il vecchio Stato e la vecchia organizzazione economica sono forme di “violenza concentrata” che devono essere eliminati. Allo stesso tempo, la violenza rivoluzionaria deve creare una forma nuova e diversa di “violenza concentrata”, quindi un nuovo Stato della nuova classe al potere, che eserciti la coercizione extraeconomica tanto per la fase distruttiva di liberazione, quanto per la fase costruttiva di coesione e organizzazione. I “costi” del periodo di transizione saranno minori quanto maggiore sarà la coercizione, perché il processo di transizione si abbrevierà e si ristabilirà in maniera più rapida l’equilibrio sociale, grazie al quale la curva delle forze produttive inizia a risalire[58].
Lo scoglio maggiore è l’integrazione delle campagne nel processo rivoluzionario. Il conflitto tra città e campagna è in sostanza lo scontro tra il collettivismo operaio e il particolarismo contadino; le imprese agricole sono nazionalizzate, mentre i piccoli appezzamenti sono redistribuiti ai contadini, che vedono nel possesso individuale della terra la possibilità del commercio libero dei prodotti. Ma già dopo la Rivoluzione di Febbraio lo Stato aveva fissato il proprio monopolio sui cereali, provvedimento ratificato poi dai bolscevichi, costringendo così i produttori a cedere le eccedenze allo Stato a un prezzo fisso, senza possibilità di commercio privato. Ciò si rivela presto insufficiente a soddisfare le necessità di approvvigionamento delle città e vengono reintrodotte le requisizioni forzate, a opera di squadre di volontari, prima per il grano e poi per tutti i generi alimentari, in tutta la RSFSR. Con questo si cerca di coprire i costi dell’esercito e di nutrire la popolazione urbana.
Gli effetti sono diversi e incontrollabili. Il divieto di libero scambio fa nascere un fiorente mercato nero, in cui molte persone partono verso le campagne per barattare generi di prima necessità; più in generale, molti operai abbandonano le fabbriche per tornare a lavorare la terra, che almeno garantisce una forma di economia di sussistenza. I tentativi di controllo da parte dello Stato non hanno successo, e alcuni mercati illegali sono “tollerati” persino a Mosca. Intanto aumenta la concentrazione nelle mani dello Stato di ogni attività economica, con la nazionalizzazione di tutte le principali imprese e degli enti economici del Paese, fino a rendere lo Stato l’unica entità in grado di decidere sull’utilizzo delle risorse umane e materiali. La popolazione è obbligata ad aderire alle società di consumo, che distribuiscono i prodotti tramite un sistema di tessere per il razionamento individuale. I salari vengono progressivamente erogati in natura, garantendo determinate quantità di vari generi (dal cibo a materie come tessuti, fiammiferi, petrolio ecc.); i servizi come acqua, luce e gas sono gratuiti, in cambio ogni cittadino è soggetto al lavoro obbligatorio e tutta la popolazione è costantemente mobilitata nelle “armate operaie”, che sono organizzate secondo principi militari e attuano in tutto il Paese iniziative volte a sopperire la mancanza di mano d’opera (dovuta alla dispersione nelle campagne della popolazione cittadina). In queste armate operaie, lo sciopero è visto come l’equivalente di un ammutinamento ed è perciò punito severamente.
L’inflazione è un altro fenomeno che contribuisce a spostare l’economia dall’uso del denaro a forme che ne annullano l’utilità, e che in qualche modo illudono i bolscevichi di poter attuare il piano di abolizione del denaro previsto dalla costruzione di una società in cui, tra il comunismo della produzione e quello della distribuzione, non ci sarebbe più bisogno di compensazioni monetarie. Nel periodo del comunismo di guerra, i rapporti tra imprese ed enti statali vengono regolati senza transazioni in denaro, con semplici annotazioni nominali delle somme ricevute; i bolscevichi, tra cui Bucharin, ritengono che la socializzazione della produzione determini la socializzazione dello scambio, per cui i prodotti passano semplicemente dai commissariati agli altri organismi, mentre lo Stato decide il valore dei generi e la misura del consumo di ogni cittadino. La gratuità dei servizi contribuisce a rendere superfluo il denaro, sia come mezzo di transazione che come misura di valore.
Ma questo meccanismo economico, primo esperimento di razionalizzazione del consumo delle poche risorse del Paese, è strettamente legato alla situazione di emergenza in cui versa la Russia e, contrariamente alle speranze e illusioni bolsceviche, non può di fatto essere sopportato in tempo di pace. Alla metà del 1921, dopo la sconfitta definitiva dell’Armata Bianca e il ristabilimento della sicurezza, si avverte da più parti il bisogno di allentare la presa dello Stato sugli aspetti quotidiani del consumo e della distribuzione; la conflittualità incessante degli ultimi anni ha sfiancato tanto le città quanto le campagne, una grave carestia si profila nei magri raccolti e scoppiano diverse rivolte per reclamare migliori razioni. La più famosa e tragica è quella dei marinai di Kronštadt: città roccaforte del regime comunista, modello di disciplina rivoluzionaria, insorge contro il soviet locale e chiede al governo di ripristinare forme di libero commercio con i contadini e nuove elezioni, che garantiscano libertà anche alle altre organizzazioni socialiste; il governo però non vede in questo un’espressione della libera autodeterminazione popolare, bensì un tentativo controrivoluzionario ispirato dai Bianchi. Il rischio che l’esempio si diffonda nel resto del Paese, scosso da altre rivolte in varie regioni, spinge i bolscevichi a una repressione violenta; nel giro di due settimane, la rivolta è schiacciata dall’Armata Rossa, comandata da M. N. Tuchačevskij, stretto collaboratore di Trotsky e tra i principali autori della sconfitta di Kolčak in Siberia[59].
Alla fine del 1921, in ogni caso, le forme del comunismo di guerra vengono liquidate. La necessità ormai imprescindibile di far respirare la società e aumentare la produzione stimola il secondo grande esperimento economico, la NEP (Novaja Economičeskaja Politika, “nuova politica economica”), che rappresenta una sorta di “tregua economica” e un temporaneo rallentamento verso il socialismo. La lezione di Kronštadt è essenziale: la popolazione è sfinita, il Paese sull’orlo del collasso definitivo, le misure di emergenza sono andate oltre il dovuto e ora che la Russia sovietica è salva, rischia di autodistruggersi. I contadini, il cui numero è addirittura aumentato grazie all’esodo dalle città affamate e dalle fabbriche paralizzate, sono ormai ostili al governo; i bolscevichi devono assolutamente ricucire questo strappo e il primo provvedimento del nuovo corso, annunciato al X Congresso del partito, è il ripristino di alcuni elementi capitalistici nell’economia. Lenin, dimostrando ancora una volta una visione pragmatica della politica, parla apertamente di “ritirata strategica” e riprende il programma che aveva caratterizzato socialdemocratici e menscevichi, quello di un lungo periodo di transizione in cui un capitalismo di Stato possa controllare il processo di ripresa industriale attraverso concessioni mirate al mercato.
La NEP reintroduce il denaro e il libero scambio. Viene abbandonata la militarizzazione del lavoro. Si sostituisce la requisizione forzata con l’imposta in natura: i contadini posso cioè disporre come meglio credono delle eccedenze, dopo aver assolto i loro obblighi verso lo Stato. Si ristabilisce inoltre il commercio tra città e campagna, con lo scopo di stimolare tanto la ripresa delle semine quanto il ritorno della mano d’opera nelle fabbriche, per recuperare il rapporto tra operai e contadini; l’intento iniziale è quello di favorire il baratto tra prodotti agricoli e industriali, ma lo sviluppo rapido delle forze economiche costringe anche a reintrodurre la cartamoneta per il controllo dei traffici. In poco tempo, anche l’imposta in natura viene trasformata in imposta in denaro, così come i salari. Allo sviluppo dell’economia di mercato corrisponde anche l’abbandono della gratuità dei servizi e la liberalizzazione di molti beni prima assicurati dallo Stato, mentre si pongono le basi per un moderno sistema di credito; la possibilità di limitare il mercato al piano provinciale si rivela esigua: la pressione dello sviluppo commerciale si diffonde all’intero Paese, liquidando in via definitiva il baratto. Riguardo all’industria, il capitalismo di Stato segue quattro direttrici principali: l’affidamento a capitalisti stranieri della gestione di alcune imprese sotto il controllo dello Stato sovietico; la cooperazione tra i produttori; il pagamento di una commissione ai commercianti che acquistano dai piccoli produttori e rivendono allo Stato; l’affitto a cooperative o a privati degli stabilimenti industriali nazionalizzati, con diritto allo sfruttamento delle risorse demaniali.
A questi primi provvedimenti, fanno seguito decreti che introducono altre forme mutuate dal sistema capitalista: le nazionalizzazioni sono ora vietate senza una previa valutazione degli organi amministrativi superiori; il lavoro obbligatorio è abolito; la libera circolazione della forza lavoro è autorizzata; il salario non è più erogato su base egualitaria, ma legato alla produttività: vengono cioè istituiti dei premi in natura (solitamente prodotti della stessa fabbrica) per i lavoratori più produttivi, che possono così scambiarli con i contadini. La progressiva autonomia nella gestione degli interessi economici porta alla nascita, nel 1923, dei trust industriali sovietici, che lasciano allo Stato le prerogative di controllo e la direzione generale. Dal 1924 l’industria leggera, dei beni di consumo e dei generi alimentari si sviluppa in modo preminente rispetto all’industria pesante, mentre aumentano le superfici coltivate e gli allevamenti, con la tendenza a raggiungere i livelli ante guerra. Viene persino concesso l’afflusso di capitali stranieri sottoforma di prestiti e concessioni. Gli imprenditori che in questo periodo si arricchiscono vengono definiti nepmen, protagonisti dell’economia mista; intanto la forza lavoro si trasforma sempre più in una moderna classe lavoratrice industriale, più cosciente e preoccupata della produttività.
Pur essendo una “ritirata dal comunismo”, la NEP non è però una reale svolta verso il liberalismo atteso dalla vecchia borghesia pre-rivoluzionaria. Lo Stato resta il principale soggetto economico, sotto il cui controllo vi sono la grande industria, il commercio nazionale ed estero e il sistema bancario. Se in un primo momento i nepmen sopperiscono alle deficienze della distribuzione statale, il recupero delle funzionalità spinge il governo a limitare e persino reprimere questa nuova classe di imprenditori. Resta il fatto che la NEP è vista come il compromesso che risolleva le sorti della Russia e tranquillizza gli stessi quadri dirigenti, oltre che i gruppi non comunisti. La critica più severa arriva, semmai, dalla base del Partito, che vede nei nepmen degli speculatori e nella nuova politica economica la sconfitta della Rivoluzione e la rinuncia al comunismo[60].
Verso il “marxismo-leninismo”
La fondazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nel 1922, è il preludio di una fase nuova. La base del Partito è attraversata dalla delusione per la reintroduzione del capitalismo, seppur di Stato; molti militanti abbandonano le varie organizzazioni e si levano critiche aggressive contro l’importanza assunta da tecnici ed esperti senza partito, la cui azione non è politica bensì puramente economica. Ciò spinge la dirigenza a rafforzare la centralizzazione del Partito per resistere alle pressioni delle opposizioni interne, la cui grande vitalità sembra mettere a rischio la solidità dell’istituzione; la libertà di critica, tra delusioni, dubbi e ripensamenti, assume i tratti di una “malattia”, che va curata con l’imposizione di una disciplina di ferro. Sono così vietate le frazioni, in cerca di unità e coesione contro le spinte disgreganti; questo implica la rinuncia definitiva alla collaborazione ampia con le altre forze politiche e sociali, costruendo un monopolio del potere che vede, infine, il Partito Comunista (bolscevico) come unica organizzazione politica legale dell’URSS – il partito unico. Allo stesso tempo, si abbandona di fatto la politica dell’autodeterminazione dei popoli con la “resurrezione” del vecchio impero, ai cui confini i bolscevichi non possono rinunciare; anche se in questo non si può attribuire la responsabilità al solo governo bolscevico. In effetti, la possibilità di aderire volontariamente all’Unione Sovietica è la molla che spinge diverse repubbliche socialiste a cercare un alleato contro le nascenti borghesie nazionali. Questo, senza contare gli effetti della guerra civile, che grazie alla controrivoluzione aveva portato gli interessi stranieri nel cuore della Russia devastata.
Lenin muore nel gennaio del 1924. La NEP è nel pieno del suo sviluppo e la lotta per il potere che si apre ai vertici del partito prende le mosse anche dalle questioni teoriche sorte intorno a questa sperimentazione. Si scontrano le Opposizioni di destra e di sinistra, ma soprattutto si scontrano due idee radicalmente diverse sullo sviluppo del socialismo: la rivoluzione permanente di Trotsky e il socialismo in un paese solo del principale esponente del “centro”, I. V. Stalin[61]. I dettagli di questo scontro li riserviamo per un futuro contributo; ciò che importa sono le conseguenze della vittoria di Stalin: sul piano politico, come è noto, si instaura una dittatura che assume presto una natura estremamente violenta e, nel corso degli anni Trenta, spazzerà via l’intera “vecchia guardia” bolscevica e inquadrerà la società sovietica nello schema del totalitarismo. Stalin, alla fine delle epurazioni, resterà l’unico collaboratore della cerchia più stretta di Lenin ancora in vita.
Sul piano teorico e filosofico, che qui ci interessa per la storia delle idee, il periodo staliniano si caratterizza per l’irrigidimento ideologico che, prendendo le mosse dalla progressiva “bolscevizzazione della filosofia” in atto già dal 1922, fonda l’intera vita culturale sovietica sui principi del marxismo-leninismo[62]. Questa locuzione nasce allo scopo di determinare filosoficamente (ma soprattutto ideologicamente) cosa sia il “vero” marxismo, nella vastità di indirizzi e interpretazioni che fino alla Rivoluzione hanno caratterizzato il dibattito teorico socialista. In effetti, ogni corrente politica ha avuto le sue direttrici teoriche e gli scontri in seno alla lotta politica sono stati anche scontri tra orientamenti filosofici; con la vittoria dei bolscevichi e la ricerca dell’unità a tutti i costi, anche in filosofia si assiste alla rapida repressione di tutte quelle scuole di pensiero tacciabili di idealismo, a cominciare dalle filosofie orientate verso la concezione religiosa (Berdjaev, Frank, Bulgakov, Florenskij ecc., molti dei quali esiliati, altri arrestati e fucilati), per estendersi a ogni idea non conciliabile con il materialismo sempre più intransigente della cultura sovietica. Uno dei primi marxisti a farne le spese è Bogdanov, il teorico del Proletkult e dell’empiriomonismo, la cui influenza e autorevolezza resta grande nell’ambito culturale fino al 1920, quando una riedizione di Materialismo ed empiriocriticismo lo condanna a ritirarsi dalla vita pubblica.
Dal canto suo, Lenin non ha mai pretesto di elaborare una propria filosofia sistematica, tanto che tutti i suoi scritti hanno il carattere dell’opera teorica elaborata per l’azione politica concreta, in cui le dispute filosofiche si intrecciano alle lotte con avversari dentro e fuori dal partito, perciò il “leninismo” è da considerare una creazione successiva alla sua morte. Il marxismo-leninismo viene definito come una nuova tappa teorica, l’evoluzione del marxismo nell’epoca dell’imperialismo[63], sulla cui natura il dibattito filosofico interno al bolscevismo si affanna per tutto il decennio. Nonostante l’estromissione definitiva di Bogdanov, una parte delle sue idee continua a diffondersi grazie a Bucharin, il quale esamina sistematicamente i concetti del materialismo dialettico nell’opera del 1921 La teoria del materialismo storico, primo tentativo di esporre in maniera organica i termini del dibattito. Rinasce l’interesse per le fonti filosofiche del marxismo, ovvero per l’idealismo tedesco e la dialettica hegeliana, nella prospettiva di dare una fondazione filosofica e perciò una guida nel metodo e nei contenuti non solo al partito, ma a tutta la cultura e alle scienze. Un contributo importantissimo per questa prospettiva è la pubblicazione dell’opera di Engels Dialettica della natura, che pone le basi e i termini per la discussione sul problema della natura dialettica del materialismo storico e sulla teoria della conoscenza.
Da ciò prende le mosse il dibattito principale degli anni Venti, espresso attraverso la rivista ufficiale di filosofia sovietica «Sotto la bandiera del marxismo», che vede contrapposte le due correnti dei “dialettici” e dei “meccanicisti”. I primi affermano la supremazia della dialettica nello sviluppo della società e della natura, per cui ogni altra scienza deve esservi subordinata; i secondi sostengono che il compito della filosofia è solo la chiarificazione concettuale, senza interferenze nelle ricerche scientifiche in base a principi aprioristici. Nel 1929, alla II Conferenza pansovietica delle istituzioni scientifiche marxiste-leniniste, si decreta la vittoria dei dialettici e la censura dei meccanicisti, accusati di “deviazionismo di destra” ed espulsi dalle loro posizioni lavorative; il declino del meccanicismo comporta anche quello di Bucharin, che viene allontanato dalla dirigenza del partito e alcuni anni dopo cadrà vittima delle epurazioni, venendo fucilato nel 1936.
Intanto, vengono pubblicati i Quaderni filosofici di Lenin; rispetto a Materialismo ed empiriocriticismo, l’autore dà maggiore rilevanza all’elemento dialettico del materialismo, recuperando il ruolo attivo della coscienza e perciò la prassi come momento attivo di conoscenza e trasformazione del mondo oggettivo, superando così la teoria del rispecchiamento. I dialettici ne approfittano per concentrarsi sulle teorie conoscitive e logiche di Marx, Engels, Lenin e dei principali esponenti dell’idealismo tedesco, ma all’inizio degli anni Trenta anche questo gruppo cade in disgrazia, stavolta accusato di “deviazionismo di sinistra”, quindi censurato ed espulso. La fine del dibattito filosofico in URSS apre definitivamente la strada al dominio dell’ortodossia ideologica staliniana su ogni campo dello scibile: tutti i campi di ricerca sono sottoposti all’intervento sistematico delle istituzioni, sia in ambito culturale che in campo scientifico, per orientare e “correggere” i risultati al fine di uniformarli ai valori sociali e ideologici definiti dal Partito[64].
Il materialismo dialettico si trasforma in una dottrina codificata e rigida, definita con l’acronimo DIAMAT, che assume il ruolo di pensiero ufficiale dell’URSS e, in assenza di dibattito, assume un carattere apologetico, di giustificazione dello status quo. Nel 1938, un gruppo di dirigenti si incarica di codificare la “storia ufficiale” del Partito Comunista (bolscevico); per l’occasione Stalin scrive Materialismo dialettico e materialismo storico[65], un capitolo, poi ristampato in opuscolo, in cui eleva il Diamat a dottrina generale e definitiva della realtà naturale e sociale. Il materialismo storico è un caso particolare di applicazione del materialismo dialettico, ossia della dialettica naturale alla società; la natura costituisce un tutto coerente, in cui i singoli fenomeni sono organicamente connessi, interdipendenti e mutualmente influenzati. Lo sviluppo della società segue leggi oggettive, coerenti con quelle naturali, perciò il suo sviluppo è rigidamente deterministico, su cui la volontà del singolo non può fare nulla[66]. La teoria della conoscenza torna a ricalcare il rispecchiamento, per cui Stalin (il cui culto della personalità è ormai senza limiti) è la persona in grado di ricavare dalle forze storiche il quadro normativo della realtà, che coincide con la costruzione del socialismo in un solo paese[67]. Il mondo è insomma inscritto in leggi storiche e materiali, per cui ha uno sviluppo prevedibile e dimostrabile oggettivamente.
Il marxismo-leninismo staliniano diventa l’unica forma di filosofia scientifica veridica, mentre le altre filosofie pre-marxiste sono dichiarate false, e quelle occidentali non marxiste sono liquidate come “ideologia borghese”. La conseguenza fondamentale di questo impianto ideologico e dottrinario è la fine culturale e politica della Rivoluzione russa: alla restaurazione di diverse vecchie forme sociali imperiali si accompagnano, all’epoca della Seconda Guerra mondiale, la rinascita del patriottismo e, dunque, l’isolazionismo filosofico, ossia la critica (e la censura) al cosmopolitismo, l’interesse verso le filosofie occidentali che trascura il pensiero russo. Nell’ottica del risveglio del sentimento nazionale, si assiste a un recupero del populismo ottocentesco nel pensiero di Černyševskij, Herzen e altri, ma con un atteggiamento reminiscente della slavofilia, presentandolo come preparazione del socialismo scientifico elaborato da Lenin. Il culmine di questo isolazionismo patriottico si raggiunge dopo il conflitto, arrivando a creare persino una “scienza marxista” contrapposta alla “scienza borghese” occidentale, con l’esaltazione di teorie fallaci come la genetica di T. D. Lysenko e il rifiuto della teoria della relatività elaborata da Einstein, giudicata incompatibile con la concezione dialettico-materialista dello Stato sovietico. Solo la morte di Stalin, nel 1953, porterà a una riapertura, anche se parziale, del panorama culturale del Paese[68].
Appendice
Costituzione della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa
Approvata dal V Congresso Panrusso dei Soviet il 10 luglio 1918
Legge fondamentale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche
Approvata il 6 luglio 1923 dalla II Sessione della I Legislatura del Comitato esecutivo centrale dell’URSS e, nella redazione definitiva, dal II Congresso dei Soviet dell’URSS il 31 gennaio 1924
Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche
Approvata dall’VIII Congresso (straordinario) dei Soviet dell’URSS il 5 dicembre 1936
Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche
Approvata dalla VII Sessione (straordinaria) della IX Legislatura del Soviet Supremo dell’URSS il 7 ottobre 1977
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Note
[1] Il nome attribuito a questo gruppo deriva proprio dal momento scelto per l’insurrezione: dekabr’ vuol dire “dicembre” in lingua russa. Cfr. la voce «Decabristi» in “Encilopedia Italiana (1931)” a cura di E. Lo Gatto, consultabile sul sito Treccani all’indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/decabristi_%28Enciclopedia-Italiana%29/
[2] Per una introduzione puntuale alla filosofia in Russia e quindi alle correnti di pensiero qui trattate, si consiglia Cantelli C., La filosofia russa, in Melchiorre V. (a cura di), Filosofie nel mondo, Bompiani, Milano 2014.
[3] La obščina era la comunità rurale in cui vigeva la proprietà collettiva della terra, dove ogni contadino lavorava in comune con gli altri. Le decisioni sulla distribuzione delle terre, la riscossione delle tasse, il reclutamento di soldati per l’esercito imperiale e in alcuni casi l’amministrazione della giustizia, spettavano al mir, l’assemblea comunitaria. Dal lavoro nell’obščina i contadini traevano il loro sostentamento, cui si aggiungeva il lavoro (non pagato) nelle terre di proprietà dei latifondisti. Istituto di origine medievale, sopravvisse in varie forme fino al 1905. La sua idealizzazione, in varie maniere, è la costante delle teorie populiste.
[4] Cfr. Cantelli C., op. cit., pag. 99-106.
[5] Rivista di critica letteraria fondata da A. S. Puškin nel 1836 e portata al successo editoriale dal poeta N. A. Nekrasov, ebbe grande influenza nei circoli politici e culturali della Russia, fino a divenire punto di incontro di radicali e rivoluzionari alla metà del XIX secolo. Diffidata dalle autorità, fu definitivamente chiusa nel 1866.
[6] Cfr. Cantelli C., op. cit., pag. 110.
[7] Scritto in carcere e pubblicato a puntate su Sovremennik, il romanzo presenta sotto forma di storia apparentemente romantica una critica fortemente politica, che sarà acquisita come punto di riferimento nella formazione di generazioni di rivoluzionari; da ultimo Lenin, che in omaggio a questo romanzo darà lo stesso titolo al suo famoso scritto del 1903.
[8] Cfr. Cantelli C., op. cit., pag. 113.
[9] Cfr. Cantelli C., op. cit., pag. 116.
[10] Cfr. Cantelli C., op. cit., pag. 117.
[11] Bisogna ricordare che, oltre al trasferimento di molti contadini poveri verso le città e le fabbriche, un altro fenomeno era la nascita di una nuova classe di contadini ricchi, i quali acquistavano le terre da chi si trasferiva, diventando piccoli proprietari terrieri in crescente competizione con i latifondisti. Una sorta di “borghesia agricola” che presto avrebbe fatto sentire la sua voce in merito alla rivendicazione della terra.
[12] Se l’anarchismo bakuniano può essere considerato in effetti alla base del socialismo rivoluzionario nella sua accezione prettamente russa di partito dei contadini e delle campagne, è dall’esperienza di Narodnaja volja che prenderà origine e ispirazione il Partito dei Socialisti Rivoluzionari, fondato nel 1902, spesso schierato su posizioni autonomiste intransigenti, dedito al terrorismo come metodo insurrezionale, presto assurto tra le forze determinanti delle rivoluzioni del 1917. Cfr. Reed J., Dieci giorni che sconvolsero il mondo, Einaudi, Torino 1971, pag. VII.
[13] Marx per primo rimase stupito dell’attenzione al suo lavoro in Russia, un paese che aveva sempre avversato come baluardo della reazione in Europa. La traduzione in lingua russa del Capitale avveniva a meno di cinque anni dall’edizione originale tedesca e precedeva di quindici anni quella inglese. Tuttavia non sopravvalutò la cosa, ritenendola più il frutto di curiosità tra i giovani intellettuali, sempre pronti a interessarsi verso quanto arrivava dall’Europa. Cfr. Salomoni A., Lenin e la Rivoluzione Russa, Giunti-Casterman, Firenze 1993, pag. 23.
[14] Cfr. Cantelli C., op. cit., pag. 142.
[15] Cfr. Gorbaciov M. S., Riflessioni sulla rivoluzione d’Ottobre, Editori Riuniti, Roma 1997, pag. 16.
[16] In seguito, dopo un’iniziale alleanza con i marxisti rivoluzionari di Plechanov e la partecipazione alla fondazione del POSDR, il gruppo si sposterà su posizioni sempre più riformiste e liberali, rinunciando al materialismo storico come principio filosofico (giudicato estraneo alla capacità creatrice dell’uomo) e recuperando elementi idealistici, etici e morali di stampo religioso. Dopo lo scioglimento ufficiale del gruppo, alcuni svolteranno verso il liberalismo e l’anticomunismo, altri svilupperanno i temi della religione e della spiritualità russa nel primo ventennio del Novecento. Cfr. Cantelli C., op. cit., pag. 144.
[17] Cfr. Boffa G., Storia dell’Unione Sovietica, vol. 1: 1917-1927, L’Unità, 1990 (1976), pag. 36.
[18] In effetti il revisionismo marxista si sviluppa nella Seconda Internazionale attraverso varie correnti, da quella prettamente riformista di Bernstein, che abbandona i concetti di rivoluzione e dittatura del proletariato in favore di una politica di riforma costante della società borghese, a quella positivista di Kautsky, il quale assume la prospettiva delle scienze naturali e giunge a una visione fatalistica della storia, il cui esito inevitabile è il passaggio dal capitalismo al comunismo a causa delle contraddizioni interne alla struttura economica.
[19] Tra le sue opere più importanti nello sviluppo del marxismo vanno ricordate Il socialismo e la lotta politica, del 1883, ritenuto da Lenin l’equivalente russo del Manifesto (consultabile in lingua inglese all’indirizzo: https://www.marxists.org/archive/plekhanov/1883/struggle/index.htm) e Sul problema dello sviluppo della concezione monistica della storia del 1895, in cui pone la concezione materialistica della storia in contrapposizione alle idee populiste (consultabile in lingua inglese all’indirizzo: https://www.marxists.org/archive/plekhanov/1895/monist/index.htm).
[20] Cfr. Cantelli C., op. cit., pag. 148.
[21] Il riferimento è esplicito nel manifesto approvato al I Congresso, redatto da Struve.
[22] Le definizioni proposte per l’articolo 1 differivano di poco sul piano semantico, ma nella sostanza erano il mezzo di affermazione della linea organizzativa principale di entrambe le fazioni: quella di Lenin richiedeva ai membri la partecipazione attiva ad una delle organizzazioni del partito; quella di Martov accettava la presenza di tutti coloro che, sotto la direzione del partito, collaborassero con una delle sue organizzazioni (anche senza farne parte direttamente). Cfr. Service R., Lenin. L’uomo, il leader, il mito, Mondadori, Milano 2001, pag. 144-145.
[23] Consultabile in rete all’indirizzo: https://www.marxists.org/italiano/lenin/1902/3-chefare/cf-index.htm
[24] Cfr. Salomoni A., op. cit., pag. 30.
[25] La differenza tra le due correnti del POSDR è analizzata nello scritto Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica, del 1905, consultabile in rete all’indirizzo: http://www.bibliotecamarxista.org/lenin/volume%209/due_tattiche.htm
[26] Cfr. Salomoni A., op. cit., pag. 22.
[27] Cfr. Ponomariov B. et alii (a cura di), Lineamenti di storia del Partito comunista dell’Unione Sovietica, Editori Riuniti, Roma 1973.
[28] Cfr. Strada V. (a cura di), L’altra rivoluzione, Edizioni La Conchiglia, Capri 1994.
[29] Cfr. Scherrer J., Bogdanov e Capri, in Strada V. (a cura di), op. cit., pag. 40.
[30] Cfr. Cantelli C., op. cit., pag. 157.
[31] Si consiglia anche il film documentario L’altra rivoluzione. Gorkij e Lenin a Capri, pubblicato in dvd da B&B Film e Cinecittà LUCE nel 2007, ispirato al volume di Vittorio Strada dall’eguale titolo.
[32] Correggerà poi la sua interpretazione nei Quaderni filosofici. Si veda l’introduzione di Luciano Gruppi a Materialismo ed empiriocriticismo, Editori Riuniti, Roma 1970.
[33] Le officine Putilov erano state tra i “punti caldi” della rivoluzione del 1905 e rappresentano una delle realtà operaie principali del Paese. Nel corso della Grande guerra promuovono almeno quarantadue scioperi, cui partecipano circa centosessantamila operai. Cfr. Salomoni A., op. cit., pag. 39.
[34] Pietrogrado fu il nome di Pietroburgo dopo l’inizio della guerra contro i tedeschi: grad è infatti la traduzione russa del tedesco burg (“città”).
[35] Come è noto, fino al 1918 la Russia utilizzò il calendario giuliano, indietro di tredici giorni rispetto a quello gregoriano; quindi il 23 febbraio corrisponde al 8 marzo. Per lo stesso motivo l’anniversario della “rivoluzione d’ottobre” cade il 7 novembre.
[36] Pare che lo stesso Lenin, in una intervista rilasciata in gennaio a Zurigo, avesse detto che con tutta probabilità la sua generazione non avrebbe visto la rivoluzione. Cfr. Gorbaciov M. S., op. cit., pag. 18.
[37] Il leggendario “treno blindato”, “treno piombato” o altro, è una di quelle informazioni su cui non esiste versione univoca; alcuni sostengono che fosse un treno con un vagone cui erano state chiuse (piombate, appunto) tre uscite su quattro, per sicurezza contro possibili assalti della popolazione o dei soldati tedeschi, che sapevano della presenza di russi all’interno. Marcello Flores sostiene che si tratti in realtà di un equivoco: a essere piombate erano le valigette contenenti documenti diplomatici per il passaggio oltre le linee (si veda la puntata “1917 – La rivoluzione di Febbraio” della trasmissione Rai Il tempo e la storia, visualizzabile in rete all’indirizzo: http://www.raistoria.rai.it/articoli/la-rivoluzione-menscevica/36362/default.aspx)
[38] Pubblicate sulla «Pravda» con il titolo Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale, consultabile in rete all’indirizzo: https://www.marxists.org/italiano/lenin/1917/4/18-tesia.htm
[39] Sulla natura dell’imperialismo, concetto nuovo diffusosi in quegli anni grazie agli studi di R. Hilferding, Lenin scrisse una delle sue opere più famose, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, nel 1916. La mutazione in corso del capitalismo da industriale a finanziario implica il passaggio dall’esportazione delle merci (caratteristica del vecchio capitalismo fondato sulla libera concorrenza) all’esportazione di capitali (nuovo capitalismo monopolistico), dovuta al fatto che nei paesi economicamente più avanzati il capitalismo ha raggiunto una maturità tale da non avere più spazi interni per espandersi. La ricerca di nuovi spazi per investimenti redditizi porta a rivolgere l’attenzione all’esterno, verso i paesi meno sviluppati, dividendo l’intera superficie terrestre fra i monopoli. Questa fase ultima ha come conseguenze la speculazione finanziaria, la conflittualità irrazionale tra ricerca del profitto e bisogni della popolazione, la guerra come strumento di conquista dei nuovi spazi.
[40] Per una minuziosa ricostruzione storico-politica degli eventi rivoluzionari dal Febbraio all’Ottobre, dalla prospettiva personale di protagonista degli eventi, si veda Trotsky L. D., Storia della Rivoluzione russa, Newton&Compton, Roma 1994.
[41] Cfr. Salomoni A., op. cit., pag. 42.
[42] Cfr. Trotsky L. D., op. cit., volume 2, pag. 404.
[43] I bolscevichi ottengono infatti solo 175 su 707, mentre i socialisti rivoluzionari di varie tendenze ne ottengono oltre 400, il resto diviso tra rappresentanti di gruppi nazionali, cadetti e menscevichi (oramai realmente in minoranza). Cfr. Salomoni A., op. cit., pag. 53.
[44] Per la storia delle forze armate sovietiche si veda Bartok E., L’Armata Rossa. Storia, battaglie, strategie, Swan Edizioni, Bresso 2011.
[45] Cfr. Gordievskij O., Andrew C., La storia segreta del KGB, Rizzoli, Milano 1991.
[46] Cfr. Žižek S., Lenin oggi, Ponte alle Grazie, Milano 2017.
[47] Cfr. Boffa G., op.cit., vol. 1 (edizione de L’Unità), pag. 98; e Salomoni A., op. cit., pag. 75.
[48] Secondo dati ufficiali della Čeka, il numero di persone giustiziate in Russia tra il 1918 e il 1920 ammonta a 12.733, ma questi dati sembrano essere parziali; si ipotizza che il numero effettivo possa superarlo di molto, contando l’attività scarsamente registrata delle realtà periferiche. Cfr. Salmoni A., op. cit., pag. 86.
[49] Vi furono anche altre formazioni minori: i “verdi”, formati da contadini di vario orientamento o senza partito, idealmente simili ai social-rivoluzionari, che di volta in volta lottavano o si alleavano con l’una o l’altra fazione; e i “neri”, gli anarchici guidati dal cosacco ribelle Nestor Machno, il cui obiettivo era l’indipendenza dell’Ucraina da chiunque volesse impadronirsene. Entrambe spariranno alla fine della guerra civile.
[50] Cfr. Trotsky L. D., La rivoluzione permanente, Einaudi, Torino 1967.
[51] Su cui scrisse un delle sue opere più note, La guerra civile in Francia, nello stesso anno. Caratteristica della Comune fu la trasformazione della macchina statale in un apparato che fondeva governo, polizia ed esercito in un unico organo formato dal popolo in armi, universalmente elettivo, privo di privilegi di censo, di ingerenze della Chiesa, di esclusioni alla partecipazione. Eliminata la macchina burocratica accentratrice, le funzioni del governo passavano agli organismi di base, rendendo la Comune non una repubblica “parlamentare”, ma un organo esecutivo e legislativo insieme.
[52] A titolo di esempio, rimanendo tra i personaggi citati: nel 1911 Lenin vi scrisse un articolo commemorativo, In memoria della Comune, per il quarantesimo anniversario (consultabile in rete: https://www.marxists.org/italiano/lenin/1911/comune.htm); dieci anni dopo fu la volta di Trotsky, con l’articolo La lezione della Comune (anch’esso consultabile in rete: https://www.marxists.org/italiano/trotsky/1921/comune.htm).
[53] Cfr. Lenin, Stato e rivoluzione, in Opere, vol. 25, Roma, Editori Riuniti, 1967.
[54] Lenin considerò Kautsky come un maestro per anni, specialmente riguardo alla severa critica da questi condotta contro il revisionismo di Bernstein, il quale non solo rifiutava la dittatura del proletariato, ma rigettava anche molte idee basilari del marxismo, mantenendone altre conciliabili con la realtà di una classe lavoratrice integrata nel sistema democratico borghese. Ma Kautsky, proprio in quanto “marxista ortodosso”, sottolineava anche la necessità di una preparazione a lungo termine del proletariato, e che una rivoluzione, specialmente in Russia, dovesse portare alla pace e a un’assemblea costituente; il programma dei bolscevichi incontrò inizialmente il suo favore, ma la svolta autoritaria lo spinse a criticarli nello scritto La dittatura del proletariato, cui Lenin rispose con La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky. Per una ricostruzione di queste e altre vicissitudini teoriche, si consigliano Salvadori M. L., Storia del pensiero comunista. Da Lenin alla crisi dell’internazionalismo, Mondadori, Milano 1984; e Merker N., Il socialismo vietato. Miraggi e delusioni da Kautsky agli austromarxisti, Laterza, Roma-Bari 1996.
[55] In appedice si riporta il testo completo della Costituzione della RSFSR, approvata dal V Congresso Panrusso dei Soviet il 10 luglio 1918, seguita dalle Costituzioni dell’URSS del 1924, del 1936 e del 1977, dal cui raffronto si possono notare similitudini e cambiamenti secondo l’evoluzione istituzionale. Una caratteristica delle costituzioni sovietiche è infatti la loro “flessibilità”, senza parti irriformabili, per adattare la legge fondamentale ai cambiamenti della struttura socio-politica di uno Stato multinazionale. Cfr. Biscaretti di Ruffia P., Crespi Reghizzi G., La Costituzione sovietica del 1977, Giuffrè Editore, Milano 1990.
[56] In anni successivi, però, il graduale irrigidimento delle posizioni sovietiche porterà anche la Terza Internazionale a chiudersi in una sorta di settarismo che, ricercando una maggiore omogeneità del fronte, giungerà a rifiutare la collaborazione con ogni elemento di sinistra che non sia allineato con l’ideologia sovietica, bollando socialisti e socialdemocratici come “social-fascisti” e perdendo, a posteriori, la possibilità di arginare il vero fascismo nel suo assalto al potere. Si veda Degras J., Storia dell’Internazionale Comunista attraverso i documenti ufficiali, 3 vol., Feltrinelli, Milano 1975.
[57] Cfr. Salomoni A., op. cit., pag. 100.
[58] Cfr. Salomoni A., op. cit., pag. 121.
[59] Questo episodio resta nella storia della Rivoluzione russa come la macchia che da sola basterebbe a gettare discredito su tutta la questione del cambiamento verso una società più libera e giusta; ma è anche il sintomo della difficoltà, ormai acquisita, di dirimere le questioni politiche senza il ricorso alla violenza, che fino a quel momento aveva caratterizzato ogni singolo aspetto della vita quotidiana in Russia tra la Grande Guerra, le rivoluzioni e la guerra civile.
[60] Cfr. Salomoni A., op. cit., pag. 127.
[61] Si consiglia la raccolta di testi di Bucharin, Stalin, Trotsky e Zinoviev La “rivoluzione permanente” e il socialismo in un paese solo, a cura di G. Procacci, Editori Riuniti, Roma 1970.
[62] Cfr. Cantelli C., op. cit., pag. 197.
[63] Cfr. Stalin, Intervista con la prima delegazione operaia americana – 9 settembre 1927, in Opere complete, Vol. 10, Edizioni Rinascita, 1956, pag. 104.
[64] Ovvero sia da Stalin: come ebbe a sottolineare Trotsky negli anni della sua militanza menscevica, in polemica con il centralismo democratico di Lenin, affermò che questo produce il “sostituismo”, per cui l’organizzazione del partito si sostituisce al partito, il Comitato Centrale si sostituisce all’organizzazione del partito, infine un dittatore si sostituisce al Comitato Centrale. Si veda Trotsky, I nostri compiti politici (1904), citato in Ricci F. (a cura di), A novant’anni dalla rivoluzione d’Ottobre, Lampi di Stampa, 2007, pag. 79 (nota).
[65] Cfr. Storia del Partito comunista (bolscevico) dell’U.r.s.s. Breve corso, Edizioni in lingue estere, Mosca 1948. Ristampato, tra le molte pubblicazioni, in Boffa G. (a cura di), Per conoscere Stalin, Mondadori, Milano 1970, pag.323. Consultabile in rete all’inidirizzo: https://www.marxists.org/italiano/reference/stalin/diamat.html
[66] In questo modo, però, si elimina di fatto il movimento dialettico.
[67] I richiami alla filosofia del diritto di Hegel sono relativamente evidenti, fornendo una idea di Stato razionale nella sua aderenza ai principi fondamentali della realtà, unito in modo organico tanto alla società quanto alla natura.
[68] Cfr. Cantelli C., op. cit., pag. 200.