di Marco Ferrari
Sommario
- Introduzione (Anarco-individualismo; Capovolgimento di prospettiva; Alcuni problemi)
- Parte prima. L’anarchismo nel contesto americano
- Parte seconda. Idee libertariane
- Parte terza. Considerazioni e discussione finale
- Appendice
- Bibliografia minima
- Video
- Informazioni su Il filo di Sophia
Nota redazionale – Questo articolo ripropone i materiali di un seminario tenuto presso l’Università della Calabria il 1 dicembre 2009, nell’ambito della seconda stagione di iniziative culturali del gruppo studentesco Il filo di Sophia. La serata è stata dedicata alla presentazione e alla discussione dei punti salienti del pensiero libertario americano. Sono qui riportati alcuni spunti introduttivi e la relazione completa, ampliata da un breve resoconto del dibattito, cui segue un’appendice con una bibliografia minima e la “lettera ai rassegnati” dell’anarchico Albert Libertad. Sono inoltre riprodotti i video girati per l’occasione dagli organizzatori de Il filo di Sophia, della cui disponibilità si ringrazia.
Introduzione
Anarco-individualismo
L’anarchismo di stampo anglosassone si distingue da quella russo-europea in quanto è basata sul principio della libertà individuale che scaturisce dalla proprietà privata e dal libero mercato, senza vincoli di alcun genere. Il principio base dell’anarchismo è la contrapposizione allo Stato in qualunque forma, sia esso una dittatura, un governo democratico o un comitato rivoluzionario. Lo Stato è visto come un male in sé, fonte di ogni ingiustizia, corruzione e oppressione. Dalla critica radicale delle forme dello Stato nascono l’idea della libertà totale e della responsabilità nell’autogestione.
Se in Europa l’anarchismo è spesso stato più vicino all’estrema sinistra per comuni obiettivi di lotta (pur restandone fermamente diviso a causa dell’ottica “statalista” di socialismo e comunismo), nel mondo anglosassone ha invece sviluppato una posizione molto più aderente al sistema liberale, distinguendosi per la visione radicale del problema dello Stato: essendo quest’ultimo una gabbia per le libertà individuali, se ne deve abolire completamente l’esistenza, che mira a frenare e imbrigliare il mercato e la proprietà privata e quindi, attraverso ciò, ad assoggettare l’individuo. La libertà e i diritti individuali sono basati, come è tradizione per gli anglosassoni, proprio sulla proprietà e il commercio privati, dunque persino il Welfare State è una catena che limita la libertà dei cittadini di autodeterminarsi attraverso il proprio lavoro. Questo perché “ogni tassa è una rapina e ogni Stato è un ladro”, come sostenuto da Murray Newton Rothbard, fondatore del movimento libertariano. L’ingerenza dello Stato nell’economia deve pertanto essere abolita, e con essa il controllo statale su qualsivoglia aspetto della vita, compresa la sicurezza (polizia sostituita da forze dell’ordine a contratto) e servizi come le comunicazioni, i trasporti, la sanità ecc., che devono passare nelle mani dei privati in un regime di concorrenza. Ora, è piuttosto evidente che questo “anarco-capitalismo”, caratterizzato da un radicale individualismo e un apparente disprezzo per qualsiasi forma di gestione collettiva delle risorse, si differenzia dal conservatorismo di stampo reaganiano solo per l’opposizione totale all’esistenza dello Stato.
L’individualismo anarchico americano è interessante sul piano delle libertà e dei diritti per tutte quelle figure sociali bistrattate e normalmente condannate (ad es. la prostituta, ma anche il ricattatore – si veda il divertente Difendere l’indifendibile di Walter Block) e per la visione estremamente libertaria di espressioni che sono condannate da conservatori sia laici che religiosi, come la pornografia (il femminismo “borghese” di Wendy McElroy) o la legalizzazione delle droghe (Thomas Szasz); è interessante insomma nella parte più umanamente anarchica, che poi è caratteristica dell’Anarchia di qualunque parte del mondo, ma sul piano sociale non lascia alcuno spazio alla solidarietà, ogni forma di uso collettivo delle risorse e dei poteri, di redistribuzione della ricchezza, di tutela sociale è vista come presenza dello Stato, considerato come “la grande finzione in cui tutti vivono alle spalle di tutti” (ancora Rothbard, riprendendo F. Bastiat).
Capovolgimento di prospettiva
Nella sua logica pragmatica, inoltre, l’anarco-individualismo propone soluzioni libertarie radicali che affrontano in maniera molto concreta i problemi di gestione e autogestione, con l’intento di smascherare le incongruenze e i “miti” sulla presunta necessità dello Stato, delle leggi e della erogazione dei servizi per l’intera comunità (tesi del liberalismo classico, nonché del contrattualismo), attraverso una analisi economico-sociale che in genere non è stata presa molto in considerazione dal pensiero anarchico russo-europeo, ed in una direzione opposta al marxismo. Tuttavia, nonostante il dichiarato anti-utopismo, anche questa corrente giunge a conclusioni alquanto irrealizzabili, dato che presuppone – e non è un male, ma appunto un elemento utopico, per quanto lodevole – l’incrollabile fiducia nell’essere umano, operando però un capovolgimento rispetto all’anarchismo “socialista”, dall’effetto uguale e contrario: il sentimento che scaturisce spontaneamente dall’uomo liberato dalle catene statali e lo conduce verso una società migliore non è la solidarietà, bensì l’egoismo, che assicura agli individui la propria libertà dalla collettività e, nel rispetto dell’assioma di non aggressione reciproca, anche la propria sicurezza, prosperità e rispetto. Ed è la concorrenza, non la collaborazione, a rendere appagati e soddisfatti gli individui, che non dovranno più combattere perché capiranno che non è conveniente per gli affari. Socialismo, liberalismo classico e democrazia sono solo altre forme di Stato repressivo (già la monarchia ha una connotazione di governo “privato” che la rende più efficiente del parlamentarismo, come sostiene Hans Hermann Hoppe); l’emancipazione della donna deve molto di più alla rivoluzione industriale capitalistica che al socialismo (McElroy); i diritti umani derivano dall’ordine naturale, non dalle deliberazioni dei governi e delle costituzioni (giusnaturalismo, su cui concorda l’anarchismo tutto).
Alcuni problemi
– La libertà individuale si basa unicamente sul libero mercato, o su libertà e diritti civili come quelli di espressione, associazione, istruzione, informazione ecc., anche in presenza di un’economia controllata?
– Una gestione totalmente in mano ai privati delle risorse e dei servizi come la sanità, è più efficiente in un regime di competizione commerciale o è dannosa quanto una totalmente statale? Cosa succede se non ci si può permettere di pagare i servizi?
– Il modo di produzione capitalista, privo dell’ingerenza statale e libero da regolamentazioni di sorta, può naturalmente evolversi verso una “felice concorrenza” o conduce inevitabilmente al monopolio? E in questo caso, come si concilia ciò con la libertà dell’individuo/consumatore?
– Necessità dello Stato: oltre ai servizi, può fornire una garanzia di tutela dei diritti? Può, nei limiti propri dell’istituzione, essere arbitro dei conflitti sociali derivanti dalla differenziazione di censo?
– Secondo il diritto naturale (giusnaturalismo), i diritti della persona preesistono allo Stato e sono innati alla sua natura razionale; l’egoismo e l’individualismo, nel caso specifico, sarebbero le caratteristiche naturali dell’uomo. Esistono anche dei “doveri naturali”? Posto che i diritti naturali sono inviolabili, questi doveri sarebbero allo stesso modo inderogabili?
– Di fronte alla retorica politica di molti anarchici collettivisti, il pragmatismo degli individualisti sembra più coerente ed efficace; dunque il denunciato fallimento di ogni forma di “potere al popolo” può confermare la necessità di uno spostamento dell’attenzione dallo spazio di partecipazione pubblica al piano delle esigenze individuali? La politica deve insomma lasciarsi alle spalle il “mito” della rivoluzione sociale?
Parte prima. L’anarchismo nel contesto americano
“Capitalismo è la piena espressione di anarchismo e anarchismo è la piena espressione di capitalismo”.
Questa frase riassume il senso profondo della corrente di pensiero che si può definire nel modo più generale come anarco-individualismo. È una citazione di Murray Newton Rothbard, considerato il principale ispiratore del movimento libertariano (da cui prende il titolo l’incontro di oggi) nonché del pensiero di molti degli autori che esamineremo stasera.
Chi tra voi ha letto l’introduzione al seminario – pubblicata sul sito del Filo di Sophia, che ringrazio sinceramente per l’opportunità che mi ha dato stasera – sa che io faccio una distinzione territoriale tra l’Anarchia di matrice russo-europea e quella di matrice anglosassone. Questo perché il contesto americano è imprescindibile per comprende le differenze che separano l’anarchismo individualista da quello “classico” che conosciamo, per citare due nomi fortemente rappresentativi, attraverso le idee di Michail Bakunin ed Errico Malatesta; infatti l’anarchismo americano affonda le sue radici nel pensiero liberale, portandolo alle estreme conseguenze: se volessimo cercare dei referenti filosofici, dovremmo pensare ad una radicalizzazione di John Locke e Adam Smith. Mentre l’anarchismo russo-europeo, pur nel suo contrasto con il marxismo, mantiene una visione socialistica dell’ideale comunità anarchica, basata sulla solidarietà, sulla collaborazione, sull’egualitarismo ecc., e vede nel capitalismo una delle fonti dell’ingiustizia sociale assieme allo Stato (essendo la disuguaglianza economica sempre vicina alla mancanza di libertà), l’anarchismo anglosassone vede al contrario proprio nel capitalismo la chiave per potersi liberare dallo Stato oppressivo e realizzare la felicità umana, imponendo al centro dell’azione politica l’individuo con i suoi diritti e le sue esigenze. Lo Stato è male in quanto organo collettivo; la collettività è antagonista dell’individualità, tende a sopprimerla o a ingabbiarla negando al singolo la piena fruizione dei suoi diritti naturali, che si esprimono principalmente attraverso la proprietà privata e il libero mercato: due princìpi cardine del pensiero liberale borghese, attorno ai quali ruotano tutti gli altri. Per questo un’altra denominazione di questa corrente di pensiero è anarco-capitalismo; e qui può essere utile fare il punto sui termini. Spesso si usano parole diverse per dire le stesse cose, ma con piccole differenze, e viceversa; qui noi abbiamo termini come “libertario” e “libertariano”, “liberale” e “liberista”, e il prefisso “anarco-“ a “individualismo” e “capitalismo”. Qualcuno mi ha giustamente fatto notare che, al fondo, ogni anarchico è un individualista, per la sua libertà di pensiero e l’autonomia che mantiene anche all’interno del gruppo, in cui la solidarietà è la base del rapporto ma non un obbligo; allo stesso modo il libertario non è necessariamente un individualista, basti pensare all’anarco-comunismo di Kropotkin, o per lo meno non sovrappone individualismo ed egoismo; il liberale può essere un po’ ambiguo, a seconda che dia prevalenza alle libertà civili (nel qual caso sarà progressista) o alla libertà economica (e qui può essere moralmente conservatore, o indifferente come il liberista); libertariano è invece il sostenitore dell’anarco-capitalismo, quindi è un termine più specifico che indica una scelta radicale che va oltre il liberalismo e il liberismo, rifiutando anche l’ipotesi dello Stato minimo (dato che anche le poche funzioni riconosciute a esso dai liberali devono essere affidate ai privati); ciononostante i termini si combinano fra loro e non c’è una distinzione netta. Perciò possiamo dire che l’anarco-individualismo che stiamo trattando è la forma più generale di una corrente di pensiero che prende diverse strade, ognuna con le sue caratteristiche, che però hanno in comune il terreno culturale anglosassone, alcune influenze europee e l’obiettivo finale di una società senza Stato.
A questo punto vorrei fare una piccola digressione proprio sul campo culturale in cui affondano le radici di questi autori, per cercare di capire dove ci stiamo muovendo, vista l’importanza che ho dato prima alla connotazione geografica. Gli Stati Uniti sono un Paese sorto dal capitalismo; l’indipendenza delle colonie inglesi si è basata proprio su quei diritti liberali che l’Inghilterra ha preteso di diffondere nel suo impero, e la giovinezza culturale delle ex colonie, prive del peso della storia millenaria europea, ha creato i miti della frontiera e dell’uomo in grado di farsi da sé, di auto crearsi con le proprie forze dal nulla, conquistandosi tutto ciò di cui ha bisogno col duro lavoro e il commercio, quindi è proprietario per definizione ed è libero da un padrone superiore che può essere lo Stato colonialista, e poi uno Stato nazionale che regoli questa libertà. [La spinta libertaria indipendentista ha anche creato l’idea che gli USA abbiano un “destino manifesto”, quello di essere i portatori storici di libertà e democrazia a tutti i popoli del mondo, che è un concetto, com’è facile intuire, alla base del successivo imperialismo americano e che poco ha a che fare con l’anarchia.]
Nella letteratura americana sono numerosi gli esempi di pensiero anarchico individualista, anche se ancora non mescolato ad una visione economica come sarà nel libertarianismo; due nomi ricorrenti sono Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson, che hanno avuto un’influenza incalcolabile su intere generazioni di scrittori e pensatori sia americani che europei. Thoreau non riconosceva nella civlità americana un modello da seguire, in quanto improntata all’utile commerciale anziché ai valori veri della vita, ricercando un contatto più stretto con la natura, uno stile di vita più semplice e austero e sperimentandolo in due anni di vita solitaria nei boschi (che narrerà in un libro ispiratore del primitivismo); per questo rifiuto della vita civile era anche contrario alla violenza insita nei concetti di patria, Stato, nazione e nei doveri che da questi derivavano, formulando per la prima volta l’idea della disobbedienza civile, poi ripresa da Gandhi. Emerson dal canto suo proponeva una profonda etica individuale vitalistica, basata sulla fiducia in se stessi, sulla liberazione del proprio io, contro le spinte omologanti della società, che lo accomunavano a correnti del nichilismo europeo; ebbe influenza anche su Nietzsche, che lo tenne sempre in conto avvicinandosi a idee come la gaia scienza e l’Oltreuomo, e sul poeta Walt Whitman, cantore della libertà creatrice dell’America e delle capacità del singolo di affrontare la vita. Da Whitman alla Beat Generation, poi, si snoda l’anarchismo letterario di protesta, non necessariamente politico ma dalla grande valenza interpretativa del disagio della civiltà americana, stretta in una contraddizione apparentemente insolubile tra spirito libertario e realtà di superpotenza; Kerouac e Ginsberg, per citare due esponenti più noti, accosteranno la libertà allo Zen e all’uso degli allucinogeni, parlando di viaggi mentali e reali nell’umanità americana; in tempi più recenti si potrebbero citare Charles Bukowski, che parla dei diseredati del sogno americano, degli ubriaconi, dei falliti e di una società troppo ipocrita per capire di essere morta; e la suggestiva riproposizione del primitivismo in Fight Club di Chuck Palahniuk. Comunque la si voglia intendere, la libertà è l’ideale fondamentale dell’intera cultura americana dall’indipendenza ad oggi e la libertà più grande è quella dell’individuo.
Dopo aver tracciato queste coordinate di formazione dell’anarchismo americano, possiamo tornare all’argomento principale consapevoli del terreno molto diverso su cui ci muoviamo rispetto all’anarchismo russo-europeo. Ora possiamo addentrarci nel cuore delle posizioni politiche degli autori in esame. Il materiale su cui mi sono basato è tutto contenuto nell’antologia Anarchici senza bombe, edita da Stampa Alternativa, che per lungo tempo è stato uno dei pochissimi testi in italiano a proporre questa linea di pensiero; attualmente è esaurito, ma con la diffusione dell’interesse per questi argomenti alcune piccole case editrici specializzate stanno rendendo disponibili le traduzioni dei testi originali e anche in Italia esistono gruppi che si dichiarano anarco-individualisti.
In questa antologia sono presenti brani che toccano varie tematiche politiche, economiche e sociali; i curatori fanno sfoggio di entusiastiche adesioni alle idee espresse e forse si deve più al loro intervento che a effettive prese di posizione degli autori il confronto serrato con le istanze dell’anarchismo classico. I temi trattati sono la natura dello Stato, del potere, delle tasse, della rappresentatività; la sicurezza, la legalizzazione delle droghe, la pornografia e la privacy. Per motivi di tempo non leggerò brani ma cercherò di riassumere le varie questioni, cercando di capire quali siano non solo le differenze ma anche i punti di contatto con l’anarchismo russo-europeo e fornire un quadro generale che poi ognuno potrà decidere di approfondire.
Parte seconda. Idee libertariane
Il dubbio di fondo è se questa corrente si possa considerare come “ala destra” del movimento anarchico o se sia piuttosto qualcosa di autonomo, il cui riferimento all’anarchia è puramente etimologico, riguardando la società senza Stato.
Lo Stato e i suoi attributi sono esaminati nelle loro contraddizioni secondo le tesi dell’anarchismo classico, mentre le “vie d’uscita” proposte convengono sul primato del diritto individuale e della proprietà. I punti in comune con le idee anarchiche del Vecchio Continente sono quindi più stretti per quanto concerne la critica al potere in tutte le sue forme, ma se ne discostano largamente sulle vie da intraprendere per eliminare lo Stato e, soprattutto, per il ruolo centrale dell’economia capitalista.
Tutti i contributi esaminati sono raccolti nell’antologia Anarchici senza bombe, a cura di A. Mingardi e G. Piombini, edito da Stampa Alternativa nel 2001. Gli esponenti dell’anarco-individualismo presenti nell’antologia si occupano di vari temi: Murray N. Rothbard, principale economista libertariano, parla della natura “criminale” dello Stato; Lysander Spooner, anarchico dell’Ottocento, critica la Costituzione americana; Benjamin R. Tucker, amico di Spooner, difende la tassazione volontaria; il francese Gustave de Molinari propone la privatizzazione di polizia e organi giudiziari; Hans H. Hoppe, allievo tedesco di Rothbard, dichiara di preferire la monarchia in quanto proprietà privata della nazione; Thomas Szasz, psichiatra antiproibizionista, è a favore del libero consumo di droghe; la femminista individualista Wendy McElroy sostiene che “vietare la pornografia mette in pericolo le donne”; Walter Block, infine, gioca sulla difesa economica del ricattatore e sulla sua utilità, per criticare lo stigma sociale e le ipocrisie individuali e collettive.
L’orizzonte concettuale si iscrive pienamente in una visione giusnaturalistica, per cui le leggi che dovrebbero regolare le vite e i rapporti degli individui sono dedotte dalla natura. Più precisamente dalla natura umana, che vede nei principi morali innati e comuni a ogni individuo la fonte della distinzione tra giusto e sbagliato. Ciò che viene considerato “istintuale”, nel senso di immediatamente riconoscibile nel suo valore morale per l’individuo, è ciò che segue i principi naturali, quindi è la legge naturale che ogni individuo ha in sé. E l’istinto porta l’essere umano a sentire come suo ciò che lo circonda, sentimento da cui deriva la proprietà. La proprietà privata è dunque il prodotto naturale dell’individuo e ogni attentato a essa è un attentato alla libertà e ai diritti naturali dell’uomo. Oltre al giusnaturalismo, il riferimento principale in campo economico (per gli autori del XX secolo) è la Scuola Austriaca, con particolare riguardo alle opere di L. von Mises; in campo filosofico, le idee ottocentesche alla base della concezione radicale dell’individuo si arricchiscono indubbiamente delle suggestioni di Ayn Rand.
Alcuni tratti risaltano già a una prima osservazione. Esiste innanzitutto una equiparazione totale tra servizi e prodotti. Ogni servizio (sicurezza, salute, giustizia ecc.) è in effetti un “bene immateriale” della cui produzione si occupano determinati soggetti, solitamente pubblici e quindi statali; i beneficiari dei servizi, ossia i cittadini, sono pertanto dei consumatori e il loro rapporto con chi produce i servizi è lo stesso che intercorre tra cliente e commerciante. Di conseguenza, ogni rapporto tra cittadino ed ente erogatore di servizi va regolato secondo le pratiche del libero scambio, del mercato in regime di concorrenza.
La collocazione culturale e geografica, come si è visto, è imprescindibile per comprendere alcune delle critiche più dure al sistema politico, che al di fuori del contesto della storia americana sarebbero quasi prive di senso: solo comprendendo come lo Stato e il Governo americani sono sorti (dalla Guerra di Indipendenza contro la potenza colonialista britannica) e come si sono venuti formando tra le colonie originali e i territori conquistati a ovest, è possibile intuire l’impianto teorico delle proteste contro l’ingerenza pubblica negli affari privati. Alcune constatazioni sulla natura giuridica della Costituzione, ad esempio, indicano una comparazione tra questa e un contratto privato che nel contesto europeo è difficilmente concepibile: si parla infatti di contratto tra privati in senso stretto, ossia nel senso giuridico di accordo tra due o più parti, non di elaborazioni teoriche come il contratto sociale di Rousseau o il Leviatano di Hobbes – in questo caso si dovrebbe perciò far stipulare il contratto tra il governo e ogni singolo cittadino, accettando che alcuni non lo firmerebbero.
L’idea fondamentale è che l’essere umano sia fondamentalmente egoista; ma questo egoismo non è da intendersi come atteggiamento “immorale”, bensì come il positivo motore di auto-promozione ed emersoniana self-reliance, attraverso cui l’individuo afferma se stesso e si relaziona con altri individui altrettanto egoisti. L’egoismo è quindi rivalutato in positivo (richiamando indirettamente l’Unico di Max Stirner): l’individuo è per sua natura intelligente a sufficienza per capire cosa gli convenga economicamente, scegliendo per logica di convenienza la pace, il commercio e l’associazione volontaria anziché la forza, la coercizione, la rapina e la sopraffazione (altro vago richiamo potrebbe essere alle idee di Kant sulla pace perpetua). Tutto il bene è dovuto al naturale egoismo, che solo può aprire la strada alla giustizia; tutto il male è provocato dallo Stato e da ciò che è collettivo. Le comparazioni tra il comportamento e l’interesse individuale e il loro equivalente statale e collettivo sono costanti e stringenti, con un’equiparazione pressoché totale dei due ambiti che porta, secondo la logica degli autori, alla palese superiorità e giustizia del primo sul secondo.
Vediamo ora alcuni elementi fondamentali dei contributi proposti nell’antologia in esame.
[N.B.: gli anni tra parentesi sono puramente indicativi del periodo di riferimento, rispetto alle opere principali degli autori, in quanto nell’antologia non sono presenti indicazioni puntuali]
M. N. Rothbard, La natura dello Stato (1965)
Secondo Rothbard, lo Stato non è altro che una organizzazione criminale. Le sue prerogative sono l’arrogarsi il diritto di imporre le proprie leggie i propri servizi, costosi e inefficienti, ai cittadini inermi, privi della facoltà di scegliere da chi ottenere i servizi in base alle regole della libera concorrenza. Lo Stato, nelle aree di sua competenza, detiene un monopolio paragonabile a quello di un commerciante che usa la forza per intimidire i suoi concorrenti in una strada di negozi. L’intimidazione spinge i concorrenti a chiudere bottega e consente al commerciante oppressore di imporre i propri servizi e le proprie merci al prezzo che vuole, senza lasciare scelta ai consumatori. Lo Stato attua allo stesso modo, depredando i commercianti tramite le tasse, usando la forza e la confisca contro chi non paga, e fornendo servizi scadenti. Inoltre, aggiunge Rothbard, tutto ciò che fa lo Stato in quanto istituzione pubblica è considerato “morale”, eticamente accettabile, mentre nel caso di un individuo si attuano sanzioni e punizioni: tassazione e rapina, incarcerazione e sequestro di persona, pena di morte e omicidio, coscrizione militare e schiavitù, sono tutti parallelismi che l’economista libertariano traccia per mostrare la disparità di valutazione morale tra un atto pubblico e un atto privato. Ma, secondo lui, la differenza non c’è: lo Stato agisce come un’organizzazione criminale, solo che è “autorizzato moralmente” a commettere quelli che in ogni altro caso sono considerati crimini esecrabili. Anzi, per Rothbard lo Stato è persino peggiore dei criminali, poiché essi agiscono su un territorio ristretto e per gli affari che li riguardano, mentre lo Stato agisce su intere nazioni e per un periodo di tempo illimitato, intrufolandosi in ogni campo della vita individuale. Nel suo intervento, Rothbard cita ampiamente Spooner, illustrandone il pensiero e le tesi molto vicine all’anarchismo russo-europeo nella denuncia delle mistificazioni storiche sulla natura del potere statale.
G. de Molinari, Sulla produzione di sicurezza (1849)
La polizia, secondo de Molinari, è un classico esempio di come un servizio collettivo sia ritenuto troppo importante per essere lasciato in mano ai privati cittadini. La sicurezza, però, è un prodotto, e come tale può essere soggetta alle regole del mercato: enti di sicurezza (forze armate, tribunali e via dicendo) creati da imprese private si offrono alla scelta dei consumatori entrando in competizione per attrarre clienti; la competizione fa abbassare i prezzi e aumentare la qualità per offrire un servizio/prodotto migliore degli altri e accaparrarsi alcuni territori da proteggere. Questo, per l’anarchico francese, migliorerebbe sensibilmente la sicurezza rispetto all’inefficienza delle forze dell’ordine statali, le metterebbe in contatto con porzioni territoriali gestibili (in quanto di minore entità rispetto a una nazione di grande estensione, come la Francia) e sottrarrebbe allo Stato la possibilità di usare la coercizione mediante la sua propria agenzia di sicurezza contro i cittadini che si rifiutino di pagarlo. In generale, de Molinari equipara i regimi monarchici e quelli democratici (che indica rispettivamente come “monopolio” e “comunismo”, secondo una terminologia pre-novecentesca), nella loro pretesa di comportarsi come un capitano d’industria o un consiglio di amministrazione rispetto allo Stato/azienda. Per quanto una gestione democratica sia meno oppressiva rispetto al controllo monopolistico del sovrano, il risultato è sempre lo stesso: arbitrio e cattiva gestione, dovute alla mancanza di concorrenza. Si potrebbe obiettare che, per conquistare clienti, i produttori di sicurezza in concorrenza tra loro si farebbero la guerra, ma per de Molinari questo è falso, perché i consumatori non si lascerebbero conquistare; di fronte all’uso della forza senza rispetto per la libertà altrui, essi si guarderebbero bene dall’affidarsi a un produttore di sicurezza e, se un ipotetico vincitore volesse poi approfittare della sua posizione per imporsi, i consumatori liberi si coalizzerebbero per “farne giustizia”. Perciò ne conclude che, come la guerra è la conseguenza del monopolio/comunismo (la guerra tra Stati, che vogliono imporsi sugli altri), così la pace è la conseguenza della libera concorrenza.
L. Spooner, Lettera al Senatore Thomas Bayard (1882)
In questa lettera sono contenute alcune delle critiche più dure al potere politico costituzionale, in nome di una visione giusnaturalista. Infatti Spooner mette subito in chiaro come una legge fatta da un gruppo di uomini sia priva di fondamento, di significato e quindi di validità: si tratta di una legge interamente artificiale, distinta dai principi della giustizia naturale, creata da uomini che si arrogano il diritto (conferito attraverso “un qualche processo”) di esercitare la loro autorità sui cittadini degli Stati Uniti. Ma conferire un tale potere ad alcuni uomini è un’assurdità, in quanto nessun individuo sano di mente conferirebbe a un altro il potere di decidere della sua vita, auto-schiavizzandosi. Questo è però ciò che avviene con un contratto che i senatori chiamano “Costituzione degli Stati Uniti”, attraverso la falsità dell’incarico pubblico conferito tramite le elezioni. Falsità dovuta all’assurdità di delegare il proprio o altrui diritto naturale alla libertà a terzi, con il potere che ne deriva. La Costituzione è perciò un contratto imposto da una minoranza a tutti gli individui, che li priva dei loro diritti naturali attraverso la delega a terzi e perciò si configura come atto criminale. Il diritto naturale, secondo Spooner, traccia una linea inviolabile e invalicabile tra il diritto di un uomo alla libertà e alla proprietà e lo stesso diritto di chiunque altro; traccia perciò i limiti entro cui ogni individuo può giustamente cercare la propria felicità secondo la propria maniera, senza responsabilità o interferenze nei confronti degli altri. Il potere legislativo, conferito attraverso il processo di delega, è invece un’usurpazione che porta al dominio arbitrario dei politici sui cittadini, con leggi distinte dal diritto naturale. Prova del fatto che sia un usurpazione è la segretezza del voto: nessun senatore può legalmente provare quali siano i particolari cittadini che gli hanno conferito l’incarico e delegato il potere decisionale. Un uomo, allora, che eserciti un potere arbitrario considerandolo delegato, ma che non sia in grado di provare chi glielo abbia delegato effettivamente, sta esercitando un potere senza mandante, ossia sta esercitando solo il proprio potere. Spooner continua poi sulla natura della Costituzione, esaminando minuziosamente le sue contraddizioni, dalla sua origine di scritto risalente a più di novant’anni prima, redatto da un piccolo gruppo di uomini adulti di sesso maschile con un certo ammontare di proprietà (assolutamente minoritari e non rappresentativi rispetto all’intera popolazione), alla presenza in essa di articoli che garantiscono l’irresponsabilità dei senatori verso chiunque li abbia eletti, ovvero l’assenza di vincolo di mandato. E conclude, dopo molti altri esempi e critiche, che è impossibile, contrariamente a quanto affermato dal senatore Bayard, che sotto la Costituzione degli Stati Uniti si possa essere al contempo legislatori e uomini onesti.
B. Tucker, Libertà e tassazione (1881)
Il contratto sociale di Rousseau è l’antitesi dell’anarchia, dice Tucker, rispondendo a un avversario sulla questione della tassazione volontaria proposta dagli anarchici. Se infatti fosse vero che lo Stato si basa su di un contratto, allora ogni cittadino dovrebbe avere la possibilità di sottoscriverlo o meno; ma nel caso del contratto sociale, esso sarebbe stato stipulato da qualcuno in un certo momento della storia, e gli altri, contemporanei o discendenti, vi sono vincolati a prescindere. Per gli anarchici, invece, il contratto di fondazione dello Stato dovrebbe basarsi su due principi cardine: la suddetta tassazione volontaria, che fornisce denaro in base alla libera adesione ai servizi offerti, e il diritto alla secessione, per ogni membro, dallo Stato che non soddisfa le sue richieste e le sue esigenze. Per Tucker, uno Stato che si basi su questi principi non è effettivamente uno Stato, bensì una “associazione volontaria”, priva di potere coercitivo verso chi non paga le tasse. Lo Stato in senso stretto è perciò quell’organizzazione monopolistica dotata del potere di imporre le tasse a cittadini che non hanno volontariamente sottoscritto alcun contratto con esso. Anche in questo scritto si ribadiscono le caratteristiche positive della libera concorrenza tra organizzazioni fornitrici di servizi, equiparando lo Stato con altre istituzioni che nel corso della Storia hanno posseduto e perso un proprio monopolio, ad esempio la Chiesa cattolica (che non è più religione di Stato); e la concorrenza fra Stati, ossia fra associazioni volontarie stanziate su un determinato territorio occupato da una determinata comunità, non potrebbe generare conflitti maggiori o peggiori di quelli che si generano tra aziende, chiese e commercianti sul libero mercato dei servizi. [Tucker segue la linea di Spooner, ma sembra essere più vicino all’anarchismo classico nella caratterizzazione della libera associazione degli individui; anche il linguaggio ricorda quello di personaggi come Errico Malatesta. NdA]
H. H. Hoppe, Monarchia, democrazia e ordine naturale (2001)
Esiste una differenza tra monarchia e democrazia: la prima è una forma di potere privato, la seconda di potere pubblico. Posto che il potere statale è sempre oppressivo e coercitivo, sia esso monarchico o democratico, per Hoppe le valutazioni economiche mostrano che anche nel caso dello Stato è preferibile una gestione privata a una pubblica. Un governante privato (il monarca) può disporre dei beni e delle proprietà nazionali, o confiscati ai cittadini, come suo capitale personale; ciò implica possibilità come godimento, vendita e lascito ereditario di terre, derrate, enti istituzionali, tasse, edifici e via dicendo. Per questo motivo, il governante privato ha interesse a far sì che il suo capitale personale sia fruttifero e di conseguenza ne avrà cura con una visione a lungo termine; inoltre, lo sfruttamento che può generare è comunque legato alla durata della sua vita, e perciò risulta inferiore a quello di un governo dalla durata virtualmente illimitata. Un governante pubblico (il governo democratico), invece, somiglia di più all’amministratore delegato di un’azienda: può prendere decisioni gestionali sui beni nazionali, ma non ne possiede la proprietà, pur potendone sfruttarne il valore a suo vantaggio. La sua finestra temporale, data la “rigenerazione” consentita dai meccanismi democratici, è lunghissima, ma lo sfruttamento del valore è limitato da quegli stessi meccanismi e perciò ogni governante pubblico si concentrerà nello sfruttare al massimo le risorse a proprio vantaggio nel lasso di tempo concesso dal sistema, senza doversi curare di piani a lungo termine e concentrandosi semmai sul godimento del presente. La transitorietà del governo democratico è perciò la causa di uno sfruttamento maggiore, di un degrado più profondo e di una inefficienza più dannosa rispetto all’interesse privato dei monarchi, che tendono a conservare le buone condizioni della loro proprietà come farebbe un qualsiasi privato cittadino con la propria casa. I governi democratici, per Hoppe, sfruttano maggiormente risorse e ricchezze perché “se non le consumano ora, non potranno più farlo in futuro”. Altri esempi storici ed economici riportati da Hoppe (primo fra tutto l’abbandono del gold standard in favore di moneta cartacea, con le conseguenze inflazionarie oggi note) tendono a confermare, per l’autore, una sostanziale superiorità, o per lo meno la preferibilità, del modello monarchico come governo privato, tirannico ma efficiente e responsabile, rispetto al governo democratico pubblico.
T. Szasz, Proibire produce morte (1992)
Il diritto di autoproprietà del corpo e la conseguente libertà morale di scegliere come condurre la propria vita (e cosa introdurre nel proprio corpo) sono la base da cui muove Szasz per promuovere la legalizzazione delle droghe. La società statunitense odierna è una società “terapeutica”, in cui Stato e medicina sono uniti in una combinazione oppressiva del tutto simile alla teocrazia spagnola medievale: se in quella la religione era unita al potere secolare e se ne avvaleva per censurare e bruciare i libri, in questa la medicina usa lo Stato per imporre la proibizione di numerose sostanze e costringere gli individui a curarsi in un certo modo anziché in un altro [qui Szasz è fedele alla sua linea di principio, l’antipsichiatria. NdA]. Valutando positivamente lo spirito costituzionale, l’autore rimarca la libertà di introdurre qualsiasi sostanza nel proprio corpo citando Jefferson e la sua critica ai francesi, che in quel periodo vietavano alcune medicine e cibi per legge. Sottolinea le contraddizioni dello Stato che vieta la marijuana, ma lascia liberamente produrre il tabacco, o proibisce il commercio di innocui dolcificanti mentre promuove l’assunzione di farmaci contraccettivi pericolosi. Continuando sulle analogie tra teocrazia e Stato terapeutico, l’autore rileva come la proibizione di sostanze pericolose non sia diversa dalla proibizione di idee pericolose; credere che i cittadini abbiano bisogno della protezione statale dalle sostanze è come dire che il potere può decidere dei loro corpi, così come la religione decideva delle loro menti. Il risultato è la riduzione dei cittadini a bambini che devono essere guidati dal buon genitore, impedendo l’autodeterminazione come per gli schiavi. La questione fondamentale riguardo alle sostanze psicoattive (droghe) è che la comune opinione per cui il controllo statale è legittimo, confonde cose e persone: le droghe sono cose, di per sé non fanno nulla fin quando non sono assunte; le persone che le assumono possono invece compiere atti criminosi e quindi lo Stato agisce in protezione delle altre persone. Ma spesso il punto su cui libertari e proibizionisti si scontrano non è la droga in sé, quanto le persone che ne fanno uso, stigmatizzate socialmente secondo criteri più morali che legali. Se da un lato ci sono indubbiamente casi di crimini e violenze, dall’altro la proibizione va oltre la cronaca e arriva a condannare il semplice fatto di ricercare piacere attraverso sostanze psicoattive, anche in assenza di disturbi e problemi di criminalità. Il valore simbolico legato alle droghe è quello del comportamento perverso, peccaminoso e pericoloso, che distoglie dal duro lavoro e dalle responsabilità, come si riteneva in passato per la masturbazione, creduta causa e al contempo effetto di malattie mentali. La questione reale della guerra alle droghe è la giustificazione di politiche repressive. Persino la morte per overdose è conseguenza del proibizionismo: acquistare droghe fuori dalla legge implica non sapere nulla né della qualità, né della quantità di ciò che si acquista, cosa che aumenta il rischio con sostanze certamente più pericolose di altre, come l’eroina. Alla fine di numerosi esempi e comparazioni (come quello tra droghe e cibi proibiti da precetti religiosi), il dilemma etico è: una persona ha il diritto o no di assumere una qualsiasi sostanza, non perché ne abbia bisogno, ma perché semplicemente lo desidera?
W. McElroy, Vietare la pornografia mette in pericolo le donne (1995)
Il femminismo odierno, secondo McElroy, ha assunto una piega pericolosa: si è alleato di fatto con il nemico conservatore in una crociata contro la pornografia, negando il diritto alle donne di praticarla per una presunta difesa della dignità del corpo femminile. Ancora una volta le scelte sessuali delle donne sono messe sotto tiro, con la ripresa di giudizi moralistici su ciò che è accettabile o inaccettabile, con la differenza che ora sono le stesse femministe a porre “paletti” alla liberazione sessuale. Ciò implica l’abbandono del principio libertario espresso dallo slogan femminista “il corpo è mio e me lo gestisco io”. McElroy individua nel femminismo radicale il promotore principale della crociata: la pornografia sarebbe “violenza di genere” e tecnica di subordinazione delle donne, da combattere in sede legale con cause civili. Questa definizione ricalca l’ordinanza anti-pornografia di Minneapolis, proposta dalla femminista radicale C. MacKinnon, in cui si spiegava che qualsiasi donna nel campo del cinema per adulti fosse sostanzialmente costretta a subire gli atti sessuali, anche quando fosse stata maggiorenne, pienamente consapevole e consenziente, e regolarmente pagata; l’idea di fondo è che in un contesto maschilista e patriarcale, il consenso della donna è inconcepibile, essa sarebbe cioè talmente plagiata e subordinata da non essere in grado di esprimerlo realmente. McElroy ha cercato allora di comprendere se le attrici pornografiche siano davvero costrette a entrare nel giro, chiedendo a varie professioniste, soprattutto dell’hardcore (per esempio il sadomaso e altri generi in cui sesso e violenza sono congiunti), delle loro esperienze, e nessuna ha mai parlato di costrizione; ma per le femministe radicali le donne non sono capaci di intendere a priori, danneggiate come sono dalla cultura maschile, quindi invocano leggi che proteggano le donne al pari dei bambini, per il loro benessere psicofisico. Diventa evidente, per l’autrice, come le conquiste delle donne del XIX secolo per l’uguaglianza dei diritti e del controllo sul proprio corpo vengano messe in discussione proprio dalle donne che se ne definiscono eredi. Negare la capacità di scelta in campo sessuale equivale a negarla in ogni altro campo. C’è poi la questione se la pornografia sia correlata alla violenza sulle donne: alcuni studi, come quello di Thelma McCormack del 1983 per la polizia di Toronto, forniscono dati negativi e anzi lasciano pensare che il porno abbia un effetto catartico che potrebbe contribuire alla diminuzione degli stupri, mentre la repressione sessuale aumentata dal divieto del porno potrebbe al contrario stimolarne un aumento. Altro punto, l’alleanza di fatto con lo Stato patriarcale: invocarne l’aiuto contro la libertà di scelta delle donne favorevoli alla pornografia, vuol dire chiedere aiuto allo stesso Stato la cui legislazione ha sempre oppresso le donne in generale, garantendo impunità ai mariti violenti e internando le donne dal carattere “originale” nei manicomi per curarne l’isteria. Infine, McElroy si concentra sul fatto che le donne possono invece beneficiare della pornografia, perché al pari del femminismo questa presenta le donne come esseri sessuati e responsabili.
W. Block, Difesa del ricattatore (1976)
L’intervento, ironico e serio allo stesso tempo, è tratto da Difendere l’indifendibile, un libro in cui Block rivaluta i “paria” della società (prostitute, spacciatori, falsari, usurai e via dicendo, fino al ricattatore) in virtù della loro utilità economica, condannando per contro figure ritenute rispettabili come burocrati, forze dell’ordine, professionisti iscritti agli albi ecc.. Difficile riassumerlo senza privarlo del suo tono sagace. Il punto di partenza di Block è l’equiparazione tra il ricatto e un legittimo scambio di servizi: il silenzio per il denaro. Chi possiede un segreto che non vuole venga divulgato, può accettare la richiesta e pagare per il servizio offerto dal ricattatore (appunto il silenzio); se non accetta, il ricattatore parla, e non fa altro che esercitare il suo legittimo diritto alla libera espressione. Peggio sarebbe il caso del pettegolo, che invece divulga segreti senza preavviso e in cambio di nulla. Dal punto di vista economico, lo scambio proposto dal ricattatore può essere persino vantaggioso per la vittima: se il valore del segreto è maggiore della somma richiesta, la vittima paga per il silenzio e può “guadagnare” sulla differenza; se invece è inferiore, non paga e non ne riceve un danno maggiore che se a parlare fosse stato un pettegolo. E questa forma, silenzio in cambio di denaro, è solo la più evidente con cui si riconosce e condanna il ricatto, mentre ve ne sono altre socialmente accettate che vanno sotto altri nomi, per esempio il boicottaggio: se qualcuno, un gruppo di clienti, minaccia di non comprare più da un commerciante se non fornisce beni con certe qualità, o di non usufruire più dei servizi di qualche azienda che non rispetta certi standard, quello che si compie è un ricatto, in quanto alla minaccia di fare qualcosa in cambio di qualcos’altro ne consegue o l’ottenimento del “prezzo”, o l’esercizio legittimo di un proprio diritto (non comprare il bene, non usufruire del servizio). In tutto questo non c’è violenza, perché alla minaccia insita nel ricatto non corrisponde un’aggressione o una conseguenza illegale, ma solo l’esercizio di un diritto, un atto lecito. Block continua nella disamina sottolineando l’utilità del ricattatore contro il crimine, perché se venisse legalizzato il ricatto i criminali ne avrebbero un danno maggiore, nelle loro attività, rispetto agli infiltrati o alle spie: dovrebbero infatti spartire il bottino coi ricattatori per non finire in manette, inoltre tenderebbero ad agire da soli per non rischiare di avere ricattatori tra i complici ecc., così il ricatto avrebbe una funzione anticrimine di grande utilità. L’unico modo in cui il ricatto può essere realmente dannoso e degno di condanna è quando implica un danno verso persone innocenti o l’uso della forza verso individui i cui segreti riguardano devianze considerate illegali, perché diverse rispetto alla norma sociale. È il caso dell’omosessualità, che essendo considerata un reato in alcuni paesi, espone i singoli omosessuali a rischi personali enormi, se venisse divulgata la loro tendenza sessuale; in questo caso un ricatto implicherebbe una minaccia con conseguenze violente e coercitive nei confronti della vittima e non può essere accettabile. Eppure, conclude Block, persino in questo frangente può esservi del positivo nel ricatto: per quanto sia una costrizione, aiuta gli omosessuali a uscire dalla segretezza, a prendere coscienza dell’esistenza di altri omosessuali e pericò aiuta, in piccola parte, il cambiamento della loro condizione rispetto a una società che gradualmente di abitua a loro.
Parte terza. Considerazioni e discussione finale
Qualche considerazione critica
Il tratto più evidente è uno stretto uso della logica argomentativa. Ciò che è logico è anche vero e perciò giusto. Eliminare le contraddizioni logiche porta a un unico risultato possibile, che deve essere accettato senza particolari riserve. Rifiutarlo significa chiudere gli occhi e perseverare nell’errore (ossia nella convinzione che il socialismo – inteso nel senso economico più ampio possibile, da Marx a Keynes – funzioni). Il problema di questa impostazione, peraltro molto razionale, è che alla fine dei conti non esiste nessun argomento che possa resistere a una disamina logica spietata, nemmeno gli stessi risultati della disamina. Questo perché la logica nell’argomentazione si basa pur sempre su dei presupposti, in base ai quali si costruisce la coerenza del discorso; ma come hanno insegnato i sofisti, la possibilità di ribaltare le argomentazioni, anche suffragate da fatti, è ciò che fonda la capacità retorica di plasmare il mondo attraverso l’interpretazione. Soprattutto oggi, nel XXI secolo, le tendenze del cosiddetto “postmoderno” sono appunto la critica e la distruzione dei presupposti, dunque delle basi concettuali su cui si edificano i discorsi coerenti.
Nonostante la preparazione sull’argomentazione logica delle proprie critiche, traspare più volte negli autori una sostanziale ignoranza di questioni teoriche e pratiche fondamentali nell’elaborazione di strutture e competenze dello Stato moderno (per esempio, le critiche al voto segreto e all’assenza di vincolo di mandato, che sono invece strumenti importanti per un funzionamento democratico e non autoritario del potere legislativo). Il linguaggio si avvicina spesso a quello delle teorie del complotto, con visioni di grandi truffe e inganni orchestrati dalle classi dominanti per sfruttare e depredare i liberi individui; come ci si aspetta da un pensiero radicale, i giudizi sono trancianti e incontrovertibili. La criminalizzazione dello Stato e degli strumenti del suo potere, anche se in forme democratiche, è un tratto comune agli anarchici di qualsiasi corrente (la critica alla Costituzione riecheggia per esempio in alcune posizioni di Toni Negri, marxista “eterodosso”). Vi è un utopismo illimitato, bardato di logica e razionalità economica: tutto l’anarco-individualismo si basa allora su una fiducia nell’essere umano ancor più grande e profonda di quanto sia possibile trovarne in dottrine “altruistiche” come il socialismo.
Alcune critiche, come la constatazione della natura non divina del potere e della storicità di istituzioni e culture politiche, sono condivisibili, ma nonostante la puntualità e la vicinanza a correnti di pensiero materialistiche (basarsi sull’analisi economica dei rapporti reali è pur sempre ciò che distingue il marxismo dall’anarchismo di Bakunin o Kropotkin), paiono più retoriche che logiche, come giustificazione di pratiche anarchiche.
Totalmente assenti sono poi le questioni sullo sfruttamento insito nel sistema capitalista (non dovuto cioè a una “prepotenza” dei padroni, bensì al funzionamento stesso del capitalismo); questo disinteresse, almeno negli autori più antichi, è probabilmente dovuto alla diversità che esiste tra il contesto europeo del proletariato urbano industriale e il contesto americano di individui in grado di contrattare con i padroni, oltre alla grande libertà del commercio privato.
Non vengono inoltre prese in considerazione le motivazioni emotive che spingono gli individui ad agire, al pari e forse più di quelle logiche, con tutta la vastità di implicazioni che esse generano. Persino la preoccupazione di garantire la libera concorrenza è di fatto liquidata con soluzioni etiche tipo l’assioma di non aggressione reciproca (quasi più un motto di spirito che una elaborazione concreta), come se il mercato non portasse di per sé ai monopoli e quindi a un potere, stavolta privato, altrettanto coercitivo e privo di garanzie – basti pensare al predominio della Standard Oil sul mercato energetico americano nel primo Novecento.
Altrettanto assenti i doveri, al di là forse del suddetto assioma. Si parla solo ed esclusivamente di diritti inalienabili, individuali e naturali, mentre non vi è alcuna traccia di eventuali doveri inderogabili. La proprietà di se stessi e il conseguente, inscindibile legame tra proprietà privata e libertà individuale, rende impensabile un qualsiasi tipo di dovere, essendo questo un obbligo, ossia una costrizione, alla cui infrazione dovrebbe necessariamente conseguire una sanzione, dunque la creazione di un’autorità superiore all’individuo che la applichi.
Individualismo radicale, giusnaturalismo, neoliberismo estremizzato e rivalutazione in positivo dell’egoismo: queste le caratteristiche più evidenti dell’anarco-individualismo, che in effetti si discosta non solo dalle soluzioni socialistiche dell’anarchismo russo-europeo, ma anche da tutto il suo sostrato culturale, filosofico e concettuale rispetto alla natura degli essere umani e dei rapporti sociali. Si rivela perciò molto più vicino al conservatorismo reaganiano-tatcheriano, con elementi di populismo destrorso e “qualunquismo” nel senso originario del termine (il Movimento dell’Uomo Qualunque).
Tuttavia è chiara la presenza di istanze prettamente anarchiche che si rifanno a una concezione libertaria non solo economica, ma anche morale e perciò lontana proprio da quel conservatorismo moralista intriso di valutazioni e giudizi, spesso di matrice religiosa, che al contrario tendono a ingabbiare l’individuo e a schiacciarne la libertà nella vita privata. Ritorna allora la questione delle definizioni: se dal punto di vista etico l’anarco-individualismo può essere considerato una branca del pensiero anarchico in generale, dal punto di vista economico si dovrebbe parlare di anarco-capitalismo, in un senso più stretto che si rivela ben diverso e distante.
Elementi dal dibattito
Il dibattito è stato dominato dalle critiche alla concezione dell’individuo: esso sembra rimanere unidimensionale, appiattito sull’attività di commercio che non solo delimita, ma anche sostanzia la sua libertà e il suo relazionarsi con gli altri; la proprietà privata si espande fino a identificarsi con l’individuo stesso, la possibilità del libero scambio assurge ad unica forma possibile di convivenza senza costrizioni.
Le iniziali analogie con l’Unico, l’egoista concepito da Max Stirner (la cui influenza sull’anarco-individualismo americano è probabilmente indiretta e posteriore alla formazione di pensatori come Spooner e Tucker) sono state ben presto messe da parte, contando il fatto che per il pensatore tedesco si trattava più di una posizione esistenziale che di una forma di organizzazione sociale vera e propria.
Maggiori le connessioni con l’economia di mercato in senso “adamitico”, sia in riferimento al primo uomo biblico, individuo per forza di cose, sia alle teorie di Adam Smith, che non a caso fu un campione della cultura liberale borghese sostenendo che ciò che va bene per l’individuo va bene per l’intera comunità. L’esempio di come l’egoismo economico possa recare danno ancor prima di benefici è stato ripreso dal film A beautiful mind, in cui il protagonista rileva la negatività di una concorrenza svincolata dall’interesse comune (nel caso specifico, la scena del bar in cui tutti gli uomini vogliono concorrere per la compagnia della donna più bella, tralasciando le altre; solo uno di loro può ottenerla, mentre gli altri non potrebbero neppure ripiegare sulle amiche di lei, poco disposte ad essere la “seconda scelta”. Al contrario, rinunciando alla concorrenza per la più bella e puntando ognuno su una propria compagna, tutti ne possono trarre vantaggio: il meglio si ottiene agendo per se stessi e per il gruppo).
Altre osservazioni hanno sottolineato l’impossibilità per l’individuo di agire isolatamente, di ridurre al momento di scambio di prestazioni l’esistenza del tessuto sociale, cercandone giustificazione in un’idea “robinsoniana” di pionieri della proprietà e del mercato; nessuno può realmente mai definirsi autonomo dagli altri, se si considera che già nel momento dello scambio si crea un’interdipendenza di fatto tra venditore e compratore, le cui conseguenze sono inevitabilmente sfuggenti al controllo individuale, compromettenti.
Un altro dubbio fondamentale ha riguardato il totale affidamento dei servizi in mano a imprenditori privati. La preoccupazione sugli abusi da parte di chi abbia più proprietà, cioè più mezzi, a disposizione, non è mitigata dalla fiducia cieca degli anarco-individualisti nell’onestà dell’individuo, che dovrebbe rispettare l’assioma di non aggressione reciproca per il semplice fatto che è conveniente per gli affari ed è razionalmente giusto. È forse una ingenuità imputare unicamente allo Stato il potere di corrompere gli individui, ritenendo che una volta scomparso si assicuri automaticamente l’integrità etica delle persone. Questa sfiducia non riguarda solo il caso di un evidente abuso di forza da parte, ad esempio, di un proprietario che paghi un’agenzia di sicurezza per aggredire e sottomettere gli altri in un determinato territorio, che è poi l’accusa rivolta allo Stato monopolizzatore della forza (trasferita sul piano individuale); la questione si riferisce proprio al principio di libero mercato anarco-capitalista: come si può assicurare una “felice concorrenza” tra individui, portatrice di buona qualità a prezzi bassi, senza che si arrivi al monopolio economico? Infatti, in nome della libertà e contro la forza, non si potrebbe mai impedire che un privato, talmente abile nel commercio e nell’espansione della propria impresa da battere sul mercato i concorrenti, giunga ad una tale potenza da sbaragliare chiunque, inglobando i perdenti e accumulando capitali indefinitamente, instaurando di fatto un monopolio duraturo non con la coercizione, non con la forza, ma proprio attraverso la pacifica attuazione in libertà dei meccanismi capitalistici.
Se lo Stato moderno nasce come arbitro dei conflitti sociali, i quali nascono dalla disparità di condizioni economiche, che sono causate dal modo di produzione capitalista che consente un maggior arricchimento di una minoranza di persone, togliendo (per dirla con Marx) alla grande massa di lavoratori una parte dei profitti derivanti dalla produzione dei beni, allora con l’anarco-capitalismo non si fa altro che potenziare il meccanismo di differenziazione sociale che porta ai conflitti, che andranno controllati in qualche modo, ad esempio attraverso un organo collettivo qual è appunto lo Stato. E questo, ironicamente, per garantire una concorrenza contro il monopolio economico, per evitare una hobbesiana guerra perpetua tra privati in cui le libertà individuali non ne gioverebbero granché. Marx avvertiva già nel 1848 che la seducente parola libertà, ripetuta come un dolce mantra dai fautori del libero scambio (anche se in contesto di liberalismo classico) è in realtà un mito che nasconde la libertà del potere economico di sfruttare gli stessi individui.
Brevi accenni sono stati fatti alla teoria del contratto sociale di Rousseau: gli anarco-individualisti, pur non dicendolo mai esplicitamente, sembrano accettare l’idea del nobile selvaggio che viene corrotto dalle istituzioni civili (lo Stato), ma pur basando le relazioni individuali sul libero mercato e quindi sul contratto come rapporto venditore-compratore, rifiutano totalmente la questione del contratto sociale inteso come volontà generale. Il contratto è sempre, senza eccezioni, individuale. L’unico possibile uso del contratto sociale potrebbe essere quello di ultimo definitivo accordo di tutti per passare ad una società senza Stato e quindi senza volontà generale.
La solidarietà, disprezzata dagli anarco-individualisti perché vista come anticamera del collettivismo e quindi dello Stato, sembra non avere spazio nella società da loro prospettata; un servizio privato fondamentale, come la sanità, pone il problema di dare assistenza medica a chi non ha i mezzi per pagare le prestazioni dei medici, i quali in nome della libertà economica contro le tassazioni statali non possono essere pagati da un servizio sanitario pubblico. Soluzione? Sperare che alcuni individui mettano su una associazione filantropica, come le vecchie società di mutuo soccorso dei migranti, per offrire un servizio gratuito a chi non ha abbastanza proprietà privata (da tener presente l’attuale situazione negli USA).
Femminismo: altra questione che ha suscitato commenti è la reazione a favore della pornografia da parte delle femministe individualiste. Se la McElroy sostiene che vietare la pornografia mette in pericolo le donne perché si tradisce il noto slogan “il corpo è mio e me lo gestisco io”, di contro è pur vero che in quello slogan non ci dovrebbe essere l’autorizzazione morale a vendersi, a prostituirsi, perché il corpo non è solo una proprietà della donna, ma è la donna stessa, l’individuo è il suo proprio corpo, non c’è una separazione tra persona e parti anatomiche. È infatti alquanto contraddittorio che ci siano, anche in Italia, donne apparse senza veli su calendari o con abiti molto succinti in trasmissioni popolari, recitando il ruolo di belle senza cervello, che si sono poi esposte in prima linea per sponsorizzare la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne condannando quelle forme di uso dell’immagine femminile, del corpo femminile, come mero oggetto di piacere voyeuristico e sessuale. Tuttavia è rimasto in sospeso un altro aspetto, il pericolo di dare man forte ai conservatori nella repressione della sessualità; una donna adulta e consenziente ha il diritto di fare pornografia o no? E questo diritto può conciliarsi con l’emancipazione femminile? Forse il punto è cambiare la mentalità attorno alla pornografia, comprenderla da una prospettiva sociologica, evitare di stigmatizzarla e rivalutarne il valore ludico per adulti.
Appendice
AI RASSEGNATI, di Albert Libertad
Odio i rassegnati! Odio i rassegnati, come odio i sudici, come odio i fannulloni. Odio la rassegnazione!
Odio il sudiciume, odio l’inazione. Compiango l’uomo incatenato, circondato da guardiani, schiacciato dal peso del ferro e del numero.
Odio il soldato curvato dal peso di un gallone o di tre stellette; i lavoratori curvati dal peso del capitale.
Amo l’uomo che esprime il suo pensiero nel posto in cui si trova; odio il votato alla perpetua conquista di una maggioranza.
Amo il sapiente schiacciato sotto il peso delle ricerche scientifiche; odio l’individuo che china il suo corpo sotto il peso di una potenza sconosciuta, di una X qualsiasi, di un Dio.
Odio tutti coloro che cedendo ad altri per paura, per rassegnazione, una parte della loro potenza di uomini, non solamente si schiacciano, ma schiacciano anche me, quelli che io amo, col peso del loro spaventoso concorso e con la loro inerzia idiota.
Li odio, sì, li odio, perchè lo sento, io non mi curvo sotto il gallone dell’ufficiale, sotto la fascia del sindaco, sotto l’oro del capitale, sotto le morali e le religioni; da molto tempo so che tutto questo non è che indecisione che si sbriciola come vetro…
Essi non sono niente, nè per me nè per voi, abbandonateli e si ridurrano in briciole.
Voi siete dunque una forza, o rassegnati, di quelle forze che si ignorano ma che sono delle forze ed io non posso sputare su di voi, posso solo odiarvi… o amarvi.
Il più grande dei miei desideri è quello di vedervi scuotere dalla vostra rassegnazione, in un terribile risveglio di Vita.
Non esiste paradiso futuro, non esiste avvenire, non vi è che il presente.
Viviamo!
Viviamo! La Rassegnazione è la morte.
La rivolta è la Vita!
Nota: Albert Libertad (pseudonimo di Albert Joseph, 1875-1908) fu un esponente della corrente anarco-individualista europea, insieme con Renzo Novatore e sotto l’influenza di Max Stirner e Proudhon, oltre che degli americani Spooner e Tucker. “Ai rassegnati” è tratto da Il culto della carogna, del 1905.
Bibliografia minima
- Anarchici senza bombe, Stampa Alternativa, 2001 (antologia)
- Murray Newton Rothbard, Per una nuova libertà. Il manifesto libertario, Liberilibri 2004
- Hans Hermann Hoppe, Democrazia. Il dio che ha fallito, Liberilibri, 2006
- Walter Block, Difendere l’indifendibile, Liberilibri, 1993
- Lysander Spooner, I vizi non sono crimini, Liberilibri, 1998
- Frédéric Bastiat, Gustave de Molinari, Contro lo statalismo, Liberilibri 1994
- Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, Adelphi, 1999
- Pierre Joseph Proudhon, Critica della proprietà e dello Stato, Elèuthera, 2001
- Errico Malatesta, L’Anarchia, 1920
- Michail Bakunin, Là dove c’è lo Stato non c’è libertà, Giunti Demetra, 2000
- Karl Marx, Discorso sul libero scambio, in Lavoro salariato e capitale, Editori Riuniti, 2006
- Albert Libertad, Il culto della carogna e altri testi tratti da “L’Anarchie”, Edizioni Anarchismo, 1981
- Viva la Rivoluzione!, BUR, 2006 (antologia)
- Wendy McElroy, XXX: A Woman’s Right to Pornography, Prelude Press, 1995
- Thomas Szasz, Our Rights to Drugs, Syracuse University Press, 1996
- Benjamin Ricketson Tucker, Individual Liberty, Vanguard Press, 1926
Video
Informazioni su Il filo di Sophia
Sito web: ilfilodisophia.blogspot.it
[aggiornamento: sito ufficiale a partire dal 2011 – i materiali di questo seminario erano sulla prima versione del sito, non più disponibile]
Pagina Facebook: ilfilodisophiaunical
E-mail: ilfilodisophia@gmail.com