di Maurizio Ferrari
La l. n. 223/1991 prevede l’inefficacia ovvero l’annullabilità del licenziamento (art. 5, comma 3: “Il recesso di cui all’art. 4, comma 9, è inefficace qualora sia intimato senza l’osservanza della forma scritta o in violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12, ed è annullabile in caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1 del presente articolo”).
Stando sempre all’art. 5, ad entrambe le ipotesi si applica l’art. 18, l. n. 300/1970: sicché, sia nel caso di inefficacia del recesso per violazione delle procedure (ovvero, per assenza del requisito di forma), sia nel caso di violazione dei criteri di scelta, gli effetti si sostanziano nella tutela reintegratoria1.
Ovviamente, i vizi inficianti il licenziamento collettivo conducono a diverso esito nel caso in cui si tratti di cessazione totale dell’attività: “In una controversia promossa da un lavoratore per la contestazione di un licenziamento collettivo irrogato in violazione delle disposizioni dell’art. 4, commi 3 e 9, e dell’art. 5 l. 23 luglio 1991 n. 223, il giudice, ove dichiari inefficace il recesso e riscontri che il datore di lavoro abbia cessato l’ attività aziendale, non può disporre la reintegrazione nel posto di lavoro ma deve limitarsi ad accogliere la sola domanda di risarcimento del danno. In questo ambito, anche l’estensione, ai sensi dell’art. 24, comma 2, della legge n. 223 del 1991, della disciplina prevista in materia di mobilità ai licenziamenti collettivi conseguenti alla chiusura dell’insediamento produttivo deve essere intesa nei limiti della compatibilità di tale disciplina con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell’ attività aziendale, e cioè in modo da assicurare ai lavoratori la tutela previdenziale e sociale, in accordo con la ratio della estensione dei detti meccanismi della legge n. 223 del 1991 ai casi di cessazione di attività , sottolineata anche dalla Corte cost. con la sentenza n. 6 del 21 gennaio 1999”2.
Diverso ancora è invece il caso disciplinato dall’art. 17, l. n. 223/1991: “Qualora i lavoratori il cui rapporto sia risolto ai sensi degli articoli 4, comma 9, e 24 vengano reintegrati a norma dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, l’impresa, sempre nel rispetto dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, può procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro di un numero di lavoratori pari a quello dei lavoratori reintegrati senza dover esperire una nuova procedura, dandone previa comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali”.
Com’è stato sostenuto, nonostante la norma faccia riferimento alla reintegrazione in generale (che riguarda, evidentemente, tutte le ipotesi di inefficacia o invalidità dei licenziamenti), il meccanismo può essere applicato solo ai casi di invalidità conseguente alla violazione dei criteri di scelta3.
Ora, entrando più nel dettaglio delle conseguenze richiamate dal menzionato art. 5, l. n. 223/1991, appare opportuno distinguere: a) le conseguenze derivanti dal mancato invio della comunicazione o dalla incompletezza della stessa; b) le conseguenze derivanti dalla violazione della procedura; c) la violazione dei criteri di scelta.
-
L’assenza della comunicazione ovvero la sua incompletezza conducono alla inefficacia dei licenziamenti.
La giurisprudenza – come accennato – si occupa frequentemente delle patologie inficianti la comunicazione. Il ragionamento “tipico” condotto dai giudici di legittimità prende corpo nella seguente massima: “Il datore di lavoro, nella comunicazione preventiva con cui dà inizio ad una procedura di licenziamento collettivo, deve compiutamente e correttamente adempiere l’obbligo di fornire le informazioni specificate dall’art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, così da consentire all’interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero. La inadeguatezza delle informazioni, che abbia potuto condizionare la conclusione dell’accordo tra impresa e organizzazioni sindacali secondo le previsioni del medesimo art. 4, determina l’inefficacia dei licenziamenti per irregolarità della procedura, a norma dell’art. 4, comma 12”4.
Sicché, pure in presenza di accordo sindacale, si deve valutare il corretto adempimento delle formalità richieste dalla legge. La giurisprudenza ha chiarito, nondimeno, che “Gli eventuali vizi della comunicazione di avvio della procedura, di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 4 l. 223/1991, nel caso in cui sia stato raggiunto l’accordo sindacale, non sono rilevanti al fine dell’inefficacia del licenziamento intimato all’esito della procedura, ove non risulti dimostrata l’idoneità dei vizi denunciati a fuorviare o eludere l’esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti alle organizzazioni sindacali”5.
Ne consegue che, in presenza dell’accordo, sarà fondamentale esplorare l’impatto dei vizi inficianti le comunicazioni sulla volontà espressa da chi è titolare del potere di controllo.
Il discorso si complica ove si tengano presente le posizioni dei singoli lavoratori6.
La Corte di Cassazione si è occupata del rapporto tra il contenuto della comunicazione e i diritti dei singoli lavoratori interessati dalla procedura: “Poiché la legge affida alle organizzazioni sindacali il potere di rappresentare, nel corso della procedura per i licenziamenti collettivi, gli interessi dei lavoratori che ne vengano coinvolti, ma nessuna norma autorizza a ritenere che il singolo lavoratore non possa contestare la legittimità di atti dai quali possa derivargli un pregiudizio, allo stesso lavoratore – che pur rimane estraneo allo svolgimento delle procedure di consultazione sindacale e amministrativa – spetta il diritto di far valere omissioni o inesattezze delle comunicazioni del datore di lavoro (ex art. 4, comma 3, della l. n. 223 del 1991), che abbiano determinato una falsa o incompleta rappresentazione della realtà, tale da compromettere il corretto svolgimento dell’esame congiunto con il sindacato, e quindi, da incidere sulla correttezza dei provvedimenti finali adottati”7.
Ovviamente, dato che il singolo lavoratore non partecipa al complesso meccanismo descritto dalla l. n. 223/1991, essendo egli sostanzialmente tutelato da chi rappresenta interessi collettivi nell’ambito della procedura, l’azione promossa individualmente deve essere ben calibrata e, soprattutto, sorretta da elementi utili a fare emergere un condizionamento dei soggetti preposti al controllo del datore di lavoro: “In tema di adempimento delle prescrizioni procedurali previste per i licenziamenti collettivi dall’art. 4 l. n. 233 del 1991, le eventuali insufficienze della comunicazione di avvio della procedura di mobilità non perdono rilievo per il solo fatto che sia stato poi stipulato un accordo di mobilità, giacché gli adempimenti imposti dal citato art. 4 sono intesi a garantire la trasparenza delle scelte aziendali e l’effettività del ruolo svolto dal sindacato attraverso una corretta e completa informazione preventiva, onde l’inosservanza degli obblighi connessi si risolve in un inadempimento essenziale che non può essere sanato nei successivi incontri sindacali e con le informazioni rese in quel contesto; tuttavia, poiché il lavoratore non è destinatario della comunicazione di avvio della procedura e non è abilitato a partecipare all’esame della situazione di crisi e a proporre soluzioni della stessa, non può far poi valere in giudizio, a propria tutela, in ogni caso, l’inadeguatezza della comunicazione (nella specie, per insufficiente specificazione di ragioni impeditive dell’utilizzo di strumenti alternativi al licenziamento), dovendo invece a tal fine provare non solo l’incompletezza o insufficienza delle informazioni rese con la comunicazione, ma anche la rilevanza di esse, ossia la loro idoneità, in concreto, a fuorviare o eludere l’esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti all’organizzazione sindacale”8.
-
La violazione delle procedure di mobilità comporta l’inefficacia dei licenziamenti (cfr. artt. 5, comma 3 e 4, comma 9, l. n. 223/1991).
Stante gli effetti dell’inefficacia (e visti i requisiti numerici imposti ai fini dell’applicazione del meccanismo previsto dalla l. n. 223/1991), la naturale conseguenza è quella prevista dall’art. 18, l. n. 300/1970, ossia, la reintegrazione nel posto di lavoro dei dipendenti licenziati. L’art. 24, comma 1 ter, nondimeno, esclude da tale effetto i datori di lavoro non imprenditori: “La disposizione di cui all’ articolo 5 , comma 3, ultimo periodo, non si applica al recesso intimato da datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto”. In questi casi, ovviamente, non si registra un deficit di tutela quanto, piuttosto, una diversa modulazione della stessa, trovando applicazione la disciplina contenuta nella l. n. 604/19669.
Ovviamente, l’indennità di mobilità eventualmente corrisposta medio tempore non può essere detratta dalle somme che il datore di lavoro deve corrispondere in applicazione del menzionato art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Esse, infatti, possono essere ripetute solo dall’Ente che le ha corrisposte, una volta ripristinato il rapporto di lavoro: “L’indennità di mobilità, corrisposta ai lavoratori licenziati per riduzione di personale, non può essere detratta dalle somme al cui pagamento il datore di lavoro è stato condannato ai sensi dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970, atteso che l’indennità medesima, una volta dichiarato inefficace il licenziamento e ripristinato il rapporto, potrà e dovrà essere richiesta in restituzione dall’Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti (disoccupazione e collocamento in mobilità, conseguenti al licenziamento)”10.
La giurisprudenza ha chiarito che il termine inefficacia evoca, inequivocabilmente, la nullità del recesso intimato: “In tema di licenziamento collettivo conseguente all’attivazione della procedura di mobilità, l’art. 5, comma 3, l. 23 luglio 1991 n. 223, ricollega la sanzione dell’ inefficacia alla violazione delle procedure richiamate dal precedente art. 4, comma 12, e la sanzione dell’annullabilità alla violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1 del medesimo art. 5. In particolare, la predetta ” inefficacia ” è sinonimo di nullità, poiché la mancata produzione di effetti costituisce la conseguenza tipica di questa più grave forma di invalidità, senza che rilevi in senso contrario che il suddetto art. 5, comma 3, ricolleghi sia all’ inefficacia che all’annullabilità del licenziamento gli effetti stabiliti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. La conseguenza che ne deriva sul piano pratico è che in presenza di un licenziamento nullo può verificarsi l’interruzione di fatto della prestazione lavorativa, ma non l’interruzione del rapporto di lavoro, poiché l’atto di recesso non è in grado di incidere sull’esistenza e permanenza del rapporto”11.
Ancora, si deve rilevare che la violazione delle procedure è intesa dalla giurisprudenza in senso relativamente ampio: “I licenziamenti per riduzione di personale effettuati ai sensi dell’art. 4 l. 23 luglio 1991 n. 223, sono inefficaci , ai sensi del comma 3 del successivo art. 5, qualora siano intimati in violazione delle procedure previste dal medesimo art. 4 (in tal senso dovendosi interpretare, sulla base sia di criteri meramente letterali, sia di criteri sistematici e funzionali, il riferimento dell’art. 5 alla violazione delle ” procedure richiamate all’art. 4, comma 12), sicché la sanzione dell’ inefficacia consegue anche nel caso di violazione della prescrizione, posta dal nono comma del citato art. 4, che impone al datore di lavoro la comunicazione agli uffici competenti e alle organizzazioni aziendali delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare”12. La conseguenza sanzionatoria di che trattasi, quindi, abbraccia l’intero iter procedurale, senza tralasciare quei passaggi che, sia pure solo formalmente, sono ritenuti necessari ai fini del corretto sviluppo del meccanismo espulsivo. Di tal che, anche l’assenza della “contestualità” delle comunicazioni è valutata ai fini della dichiarazione di inefficacia dei licenziamenti: “La comunicazione che, secondo quanto previsto dall’art. 4 comma 9 l. n. 223 del 1991, deve essere inviata agli uffici pubblici competenti e alle oo.ss. contestualmente all’intimazione dei licenziamenti, non può essere integrata a seguito della impugnativa dei licenziamenti stessi. La violazione degli obblighi sanciti dall’art. 4 comma 9 l. n. 223 del 1991 comporta l’ inefficacia del recesso”13.
E’ pacifica, quindi, l’inefficacia dei licenziamenti irrogati prima della naturale conclusione della procedura: “I licenziamenti per riduzione di personale effettuati ai sensi dell’art. 4 l. 23 luglio 1991 n. 223 sono inefficaci , ai sensi del comma 3 del successivo art. 5, qualora siano intimati in violazione delle procedure previste dal medesimo art. 4, sicché la sanzione dell’ inefficacia consegue anche nel caso di intimazione del licenziamento in un momento anteriore all’esaurimento della procedura (nella specie prima del compimento dell’ultimo passaggio di cui al comma 7 dell’art. 4), che interrompe la verificabilità del nesso diretto tra singolo recesso e scelta complessiva compiuta dall’imprenditore”14.
Stante la rigidità delle valutazioni espresse in merito al corretto svilupparsi delle procedure, si ritiene che i vizi inficianti le stesse non siano sanabili in alcun modo: “L’attuazione del licenziamento collettivo richiede il formale adempimento delle prescrizioni procedurali previste dall’art. 4, dai commi dal 2 al 12, l. n. 223 del 1991 (a partire dalla comunicazione che il datore di lavoro è tenuto ad effettuare alle rappresentanze sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria, indicando tra l’altro, i motivi tecnici, organizzativi e produttivi che impediscono l’adozione di misure alternative alla messa in mobilità), prescrizioni che condizionano l’efficacia del recesso senza che la loro inottemperanza possa essere sanata da successivi incontri in sede sindacale con le informazioni rese in quel contesto ovvero dal generico riconoscimento delle parti sociali circa l’effettuazione della procedura o la correttezza del comportamento datoriale”15.
Si tenga presente, peraltro, che la Suprema Corte ha precisato l’assoluta compatibilità della inefficacia del licenziamento con la carenza di elementi formali, ritenendo più che ragionevole la sanzione conseguente – oltre che a vizi sostanziali – alla violazione di quei “passaggi” utili a garantire le posizioni dei lavoratori: “È manifestamente infondata la q.l.c. – in riferimento agli art. 3 e 41 cost. – del combinato disposto dell’art. 4, comma 9, e 5, comma 3, della legge n. 223 del 1991, nella parte relativa alla previsione della sanzione della inefficacia dei licenziamenti collettivi per l’omissione – meramente formale – delle comunicazioni ai competenti uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. Infatti, da un lato, non appare affatto irragionevole – e, quindi, in contrasto con l’art. 3 cost. – il previsto collegamento della inefficacia dei recessi non solo a violazioni di carattere sostanziale, ma anche a violazioni di carattere formale e, d’altra parte, la libertà di iniziativa economica – costituzionalmente garantita dall’art. 41 cost. – non può dirsi compressa dal rispetto delle disposizioni in oggetto in quanto esse non riguardano tanto le scelte di politica aziendale o imprenditoriale nella loro sostanza, quanto l’osservanza di determinate forme procedimentali che consentono un controllo sulla corretta applicazione di misure (adottate dal datore di lavoro nell’ambito della propria libertà di iniziativa economica) direttamente incidenti sui diritti dei lavoratori e, quindi, di rilevanza sociale”16.
-
La violazione dei criteri di scelta comporta l’annullamento dei licenziamenti irrogati. Sul piano pratico, non vi sono differenze che rendono questo caso dissimile dai precedenti: la conseguenza è sempre quella prevista dal’art. 18, l. n. 300/1970 (reintegrazione nel posto di lavoro).
Anche in questo caso vale quanto detto in precedenza circa i datori di lavoro non imprenditori: a questi si applica la disciplina prevista dalla l. n. 604/1966.
La giurisprudenza ha escluso che si possa “interpretare” una domanda avanzata dal lavoratore licenziato e calibrata sulla violazione dei criteri di scelta quale domanda utile a fare emergere vizi della procedura (che, come detto, conducono alla inefficacia): “Benché ai fini dell’identificazione della causa petendi rilevino non già le ragioni giuridiche addotte a fondamento della domanda ma l’insieme delle circostanze di fatto che la parte pone a base della propria richiesta, tuttavia, nel caso in cui sia chiesta la dichiarazione di illegittimità, per violazione dei criteri di scelta , del licenziamento collettivo intimato a un lavoratore in sede di procedura di mobilità ai sensi della legge n. 223 del 1991, la causa petendi idonea a giustificare il petitum involge la individuazione del tipo di criteri di selezione che siano stati violati, legali o derivanti da accordi raggiunti con le organizzazioni sindacali, con la conseguenza della qualificabilità come domanda nuova, inammissibile in appello ex art. 437 c.p.c., della deduzione dell’asserita violazione dell’art. 4, comma 9, della citata legge n. 223, per non aver comparato l’azienda la posizione dei lavoratori con quella degli addetti ad altri stabilimenti, laddove in primo grado si era fatto riferimento solo alla violazione dei criteri di scelta ex art. 5, comma 1, legge n. 223 citata, limitandosi a dedurre un confronto della propria posizione con quella di altri dipendenti mantenuti in servizio”17.
La giurisprudenza di merito ha affermato, peraltro, che anche la totale assenza dei criteri utili a individuare i lavoratori in eccesso rappresenta una violazione dell’art. 5, l. n. 223/1991: “Laddove il criterio di individuazione dei lavoratori da porre in mobilità risulti assente, non potendosi verificare il procedimento logico con il quale sono stati prescelti i lavoratori stessi, con ciò impedendo di rendere trasparente e verificabile la scelta del datore di lavoro, si ha violazione dell’art. 5 l. n. 223 del 1991, con conseguente annullamento del successivo recesso del datore tramite licenziamento collettivo e conseguente tutela reintegratoria del lavoratore ex art. 18 st. lav.”18.
Diverso è il caso, invece, della individuazione di criteri di scelta insufficienti. Ove questi siano legittimi, infatti, la valutazione deve interessare l’applicazione degli stessi piuttosto che la loro determinazione: “In materia di collocamenti in mobilità e di licenziamenti collettivi, ove il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali abbiano contrattualmente convenuto un unico criterio di scelta dei lavoratori da porre in mobilità, costituito dalla possibilità di accedere al prepensionamento, e si rendesse possibile il mantenimento in servizio di alcuni lavoratori prepensionabili, tale fatto non implica automaticamente la pretestuosità ed illegittimità del criterio di scelta concordato, ma occorrerà valutare che il margine di discrezionalità del datore di lavoro nella scelta dei lavoratori prepensionabili da licenziare non sia utilizzato a mero scopo discriminatorio in violazione dei principi di correttezza e buona fede. Ne consegue che nelle ipotesi in cui il criterio di scelta concordato sia insufficiente, ancorché legittimo, l’accertamento non deve più essere indirizzato all’individuazione del criterio di scelta , ma solamente alla fase attuativa della concreta applicazione di quello concordato, secondo il principio generale di correttezza o buona fede nell’esecuzione del contratto (con applicazione quindi di criteri di razionalità, obiettività e non discriminazione nei confronti del lavoratore prescelto)”19.
_
Note
1 Il caso non riguarda, stando alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 110/2004, i datori di lavoro non imprenditori che svolgono , senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto. A questi si applica la disciplina prevista dalla l. n. 604/1966.
2 Cass., 07/06/2007, n. 13297, in Foro It., Rep. 2007, voce Lavoro (rapporto), n. 1549 e in Arg. Dir. Lav., 2007, 1445, con nota di Slataper
3 M. Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo, cit., 458. Cfr, anche Pret. Milano, 31/12/1997, in Riv. crit. dir. lav., 1998, 383 con nota di Summa.
4 Cass., 11/04/2003, n. 5770, in Foro It., 2003, I, 1381.
5 Cass., 24/10/2008, n. 25758, in Guida dir., 2008, 45, 59.
6 Cfr. ancora V. Di Cerbo, op. ult. cit., 1781.
7 Cass., 02/10/1999, n. 10961, in Foro It., Rep. 1999, voce Lavoro (rapporto), n. 1937.
8 Cass. 05/04/2000, n. 4228, in Foro It., 2000, I, 2842.
9 Cfr. V. Di Cerbo, op. ult. cit., 1789.
10 Cass., 22/06/1999, n. 6357, in Foro It., Rep. 1999, voce Lavoro (rapporto), n. 1877.
11 Cass., 19/12/2006, n. 27101, in Lav. giur., 2007, 6, 579 con nota di Girardi.
12 Cass., 18/05/2006, n. 11660, in Foro It., Rep. 2006, voce Lavoro (rapporto), n. 1627.
13 Cass., 28/07/2005, n. 15898, in Riv. crit. dir. lav., 2006, 1, 237, con nota di Bordone.
14 Cass., 02/08/2001, n. 10576, in Foro It., 2001, I, 2774.
15 Cass., 18/11/1997, n. 11465, in Mass. giur. lav., 1998, 123.
16 Cass., 01/08/2001, n. 10504, in Foro It., Rep. 2001, voce Lavoro (rapporto), n. 1556.
17 Cass., 02/07/2008, n. 18119, in Foro It., Rep. 2008, voce Lavoro e prev. (controversie), n. 130.
18 T. Ivrea, 06/12/2006, in Banca Dati DeJure, 2010.
19 Cass., 13/09/2002, n. 13393, in Dir. lav., 2002, II, 583 con nota di Fabozzi.