di Marco Ferrari
Brasile. Uno dei paesi a più alto tasso di sviluppo economico assieme alla Cina, all’India, alla Russia, al Sudafrica e alla Corea del Sud. Uno dei paesi geograficamente più estesi del mondo, ricco di risorse e potenzialità. Caratterizzato da una piramide sociale con una punta di super-ricchi e una base di sottoproletari al limite della fame. In mezzo, una classe media in aumento, ma dal futuro incerto.
All’inizio dell’estate il Brasile è venuto alla ribalta internazionale per le proteste contro il governo, contro i suoi sprechi, la sua corruzione, le sue politiche schizofreniche sui beni pubblici. Si ripetono scene e situazioni di protesta di strada già diffuse in altre parti del mondo. Eppure il governo è retto dalla prima donna presidente, Dilma Rousseff, appartenente al partito di Lula, una delle figure più apprezzate della sinistra internazionale. Un partito, il PT (Partido dos Trabalhadores) che regge il paese ormai da dieci anni, avendo ottenuto sempre moltissimi voti. Questo, dopo decenni di opposizione radicale e una rapida correzione di rotta nel 2003 verso posizioni “roosveltiane” (ispirate cioè alla politica del New Deal), pur restando alveo di tutte le speranze di rinnovamento profondo della società brasiliana. Come mai, tutto a un tratto, esso sembra essere diventato così degno di biasimo?
Innanzitutto, occorre tenere presente che la crescita economica del Brasile presenta le iniquità tipiche di ogni boom: il costante pericolo dell’inflazione e di un aumento incontrollato dei prezzi; la concentrazione della ricchezza ancora in una minoranza privilegiata; le oscillazioni del mercato del lavoro; la pressione fiscale ingente. Tutto ciò a fronte di una dilagante corruzione politica, che danneggia il settore pubblico in favore di quello privato, ad esempio nella salute: il servizio sanitario pubblico è carente e la maggioranza della popolazione tenta di pagare le assicurazioni private, come negli USA. Di conseguenza, la grande sperequazione sociale resta una caratteristica marcante del Paese.
Questo però non implica che il Brasile vada ancora considerato un paese del Terzo Mondo: soprattutto nell’ultimo decennio, lo schema piramidale della società brasiliana ha visto aumentare gli strati medi con la diffusione di un maggiore benessere, mentre l’adozione di politiche assistenzialiste, al netto delle ambiguità tipiche di tali iniziative, ha aiutato almeno in parte le fasce povere a entrare nel mercato dei beni di consumo. Inoltre, in politica estera, il Brasile si è aperto molto più che in passato ai “vicini di casa”, complice anche la florida stagione dei governi di sinistra come in Venezuela, Ecuador e Bolivia. La creazione del Mercosul, in particolare, è stata una mossa interessante per tutta l’America Latina di porre un’alternativa all’ALCA, il progetto di mercato libero tra le Americhe proposto dagli USA. A ciò, bisogna aggiungere una forza tipica dell’economia brasiliana: con una popolazione di quasi duecento milioni di abitanti, esiste un mercato interno di consumo enorme, che riesce a mantenere relativamente bassa la possibilità di crisi da sovrapproduzione e aiuta nelle importazioni.
Detto questo, perché sono esplose quelle proteste in un paese dove la partecipazione politica è sempre stata alquanto bassa (se si eccettuano momenti storici come la fine della dittatura militare)? La questione non è semplice, ma come tante altre nasce da una cosa piccola, la classica “goccia che fa traboccare il vaso”: l’aumento di 20 centesimi sul prezzo del trasporto pubblico, per finanziare la costruzione di nuovi stadi in vista del Campionato mondiale di calcio del prossimo anno, e delle Olimpiadi del 2016. Come recita lo slogan più diffuso dei manifestanti, Não é por 20 centavos (“non è per 20 centesimi”): è per la gestione inefficiente delle risorse economiche a disposizione, per la priorità data a progetti di grande spettacolo e poca utilità, a fronte di pesanti disagi in settori vitali come l’educazione, la sanità, la sicurezza. Nei maggiori centri abitati, quest’ultima è comparabile al livello delle grandi città statunitensi negli anni Settanta-Ottanta, come New York: il crimine e la violenza aumentano costantemente, la polizia è spesso impreparata e facile alla brutalità. Una brutalità che in più di un’occasione è esplosa contro i manifestanti, anche prima dell’intervento di esponenti del black block e del loro consueto vandalismo.
Va detto che la società brasiliana sta attraversando una fase di partecipazione politica piuttosto singolare. Dopo la fine della dittatura militare, i vari partiti politici, finalmente legalizzati, hanno contato su folle oceaniche come fu in Italia nel secondo dopoguerra. Il PT in particolare ha riunito attorno a sé masse di lavoratori ed élite intellettuali, divenendo il primo partito politico di opposizione del Brasile, diviso tra un’anima rivoluzionaria e l’obiettivo di integrarsi nel regime democratico. Quando il suo líder, Luiz Ignacio “Lula” da Silva, è diventato presidente, le cose sono però andate diversamente: l’anima rivoluzionaria si è ridotta a un radicalismo di facciata, probabilmente ancora sentito da una parte della base, ma “innocuo” nella pratica di governo (la fazione più marxista e gramsciana è stata estromessa e ora si è riunita in un altro partito, il PSOL). La linea politica che ha caratterizzato questi dieci anni di governo, ha visto una sostanziale accettazione del modello economico proposto dal FMI. La questione morale, di cui il PT si poneva come “guardiano”, è affondata in una tale quantità di scandali di corruzione, primo fra tutti il Mensalão, da far ritenere questa serie di governi lulisti come la più corrotta mai sperimentata.
La fiducia nei partiti, di qualsiasi parte, è molto bassa, ma la divisione tra posizioni ideologiche è ancora forte; i sostenitori rimarcano le politiche sociali innovative del PT, i successi nell’inclusione economica di strati popolari da sempre relegati ai margini, la valorizzazione delle differenze di genere e l’azione legislativa e culturale contro le discriminazioni. Per i detrattori, il sostegno popolare quasi incondizionato, che ha permesso a Lula e Dilma di rimanere in carica così a lungo nonostante gli scandali, sarebbe dovuto più che altro all’elargizione sempre più ampia di “borse”, ovvero a un assistenzialismo che stimola una sorta di voto di scambio, invece di risolvere realmente il problema della povertà.
Nel recente spot pubblicitario di una nota marca di liquori, si vedono le famose montagne nella baia di Rio de Janeiro fuoriuscire dalle acque, rivelandosi parti di un gigantesco uomo di pietra, seguite dallo slogan O Gigante acordou (“il gigante si è svegliato”), scherzando sull’appellativo di “gigante addormentato” attribuito spesso al Brasile. Il problema fondamentale è che il gigante, a dispetto dello sviluppo galoppante, non sembra ancora essersi svegliato: manca di infrastrutture forti, è afflitto dall’inflazione e sembra più che altro viaggiare “tranquillo” sull’afflusso attuale (ma probabilmente non eterno) di capitali esteri. Quando il periodo d’oro finirà, cosa accadrà alle politiche assistenziali, alla realizzazione dei grandi progetti, allo status di “lettera” del BRIC? Riuscirà a essere ciò che il popolo canta con orgoglio nell’inno nazionale, ossia un “belo, forte, impávido colosso”?