di Giuseppe Donnici
Commento a Cassazione Civile, sez. I, 12 Luglio 2019, n. 18779. Est. Loredana Nazzicone.
La Corte Territoriale di Palermo, in riforma a quanto statuito dal Tribunale del capoluogo, ha ammesso nello stato passivo del fallimento il credito dell’opponente derivante da un rapporto di lavoro di natura subordinata.
Gli elementi:
- l’istante aveva svolto la propria attività lavorativa per un lasso di tempo in cui la curatela aveva ottenuto l’autorizzazione all’esercizio provvisorio iniziato il 6 maggio 1998 e terminato il 30 settembre 1998;
- successivamente , e sino al 9 giugno 2003, data dell’avvenuto licenziamento, l’attività lavorativa era di fatto proseguita posto che la procedura concorsuale aveva mantenuto in vita il rapporto non azionando le norme che consentono al curatore di interrompere i rapporti di lavoro1;
Sulla base di questi presupposti, la Corte territoriale ha ritenuto di dover ammettere in prededuzione il credito maturato dal lavoratore.
La curatela del fallimento ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo la nullità della sentenza per ultrapetizione (art. 112cpc) e per violazione della norma che disciplina la prededuzione (art. 111 LF).
Il relazione al primo motivo, la doglianza consiste nel fatto che il ricorrente aveva chiesto di essere ammesso al passivo del fallimento solo per ciò che concerneva i crediti maturati durante l’esercizio provvisorio dell’impresa e non anche per quelli successivi. La Corte, quindi, pur avendo preso atto che la cessazione dell’esercizio provvisorio era avvenuto il 30/09/21998, avrebbe accolto la domanda andando al di là di quanto era stato chiesto posto che, a fronte di una richiesta che recava in se un preciso limite temporale, la predetta si era spinta oltre effettuando un’arbitraria variazione della causa petendi.
Il secondo motivo lamenta la mancata considerazione che i debiti contratti per l’amministrazione di una procedura concorsuale (nel caso specifico, quelli relativi alle prestazioni lavorative) necessitano di un preventivo vaglio da parte del Giudice Delegato che, eventualmente, sfocia e si concretizza nell’emissione di un provvedimento autorizzativo solo nel caso in cui, evidentemente, alla spesa da sostenere sia riconducibile un vantaggio per la procedura anche in termini di costi di gestione, in relazione ai quali, la Corte territoriale non aveva alcuna possibilità di esprimersi.
L’esame da parte della Suprema Corte.
Il primo motivo è stato ritenuto inammissibile a causa della sua genericità e quindi in violazione dell’art. 366 cpc.
La Cassazione argomenta precisando che, anche se in ricorso viene esposto un presunto errores in procedendo, rispetto al quale si riconosce Giudice del fatto, questo non la esime dalla verifica dell’ammissibilità del predetto in relazione ai termini con cui questo è stato esposto. Questo vaglio, preliminare a quello della fondatezza, presuppone la verifica dell’esatta impostazione della doglianza che, a suo dire, in ossequio a numerose precedenti pronunce2, doveva essere rigorosa nell’effettuare specifici richiami alla violazione dei criteri interpretativi previsti dall’art. 1362 e SS cc.
Sul punto, precisa che l’interpretazione della domanda giudiziale è compito specifico del Giudice del merito e deve avvenire utilizzando gli stessi criteri ermeneutici dettati dall’art. 1362 cc 3; Ne discende che il sindacato di legittimità deve necessariamente esprimersi sul mancato rispetto di quei canoni dettati dal legislatore (ar. 1362 cc) posto che, ogni altra valutazione impostata sui fatti, compete al Giudice del merito.
Il secondo motivo è stato ritenuto infondato.
La motivazione prende le mosse dalla considerazione della normativa (fallimentare) che disciplina i rapporti di lavoro. Questa prevede che i predetti rimangano in una sorta di “quiescenza” dall’apertura della procedura e fino a quando il curatore si esprimerà sulla necessità di proseguire o meno.
In relazione a questo periodo, il lavoratore non ha il diritto di insinuarsi al passivo del fallimento posto che la retribuzione sorge non in ragione dell’esistenza del rapporto in quanto tale ma dall’effettivo svolgersi dell’attività lavorativa4 .
Questo principio, però, partiva dalla premessa che il lavoratore, nell’indicato segmento temporale, non aveva effettuato alcuna prestazione.
Nel caso in cui, invece, avviene, i rapporti di lavoro continuano con l’azienda in quanto tale ed a prescindere da eventuali autorizzazioni per l’esercizio provvisorio poiché è necessario considerare l’azienda, nell’accezione civilistica del termine, nel suo concetto dinamico all’interno del quale assume un ruolo determinante anche la forza lavoro5 che ne è parte integrante ed imprescindibile anche ai fini della valutazione economica.
Ad ulteriore sostegno della continuità, la Sentenza precisa che ai lavoratori licenziati dopo l’apertura della procedura concorsuale è stata riconosciuta l’indennità sostitutiva del preavviso con il rango della prededuzione tenuto conto del fatto che, ai sensi dell’art. 2119 cc, la dichiarazione di fallimento non è giusta causa per la risoluzione del contratto di lavoro 6
Fatte queste premesse, nel caso specifico il fatto che l’azienda e la prestazione lavorativa non fossero mai venute meno anche in periodi per i quali non era presente alcuna autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’impresa, comporta l’obbligo in capo alla curatela di corrispondere il dovuto (in prededuzione) proprio in ragione della corrispettività delle prestazioni.
Note
1 Il fatto che non esistesse una ulteriore autorizzazione all’esercizio provvisorio a nulla rileva nel caso di specie posto che l’attività, di fatto, era proseguita (e la circostanza era comprovata e non contestata).
2 Cass. Civ. 6014/2018 – Cass. Civ. 12664/2012.
3 Cass. Civ. 16888/2005.
4 Cass. Civ. 13693/2022 sulla natura del contratto e sulla corrispettività delle prestazioni.
5 Cass. Civ. 1040/2009 considera la forza lavoro come elemento caratterizzante dell’azienda civilisticamente intesa.
6 Cass. Civ. 3493/1979 sulla continuità dell’esistenza dell’azienda anche dopo la dichiarazione di fallimento.