di Anastasia Palma

Il Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 2378 del 12 aprile 2019, ha esaminato la vicenda di un professore ordinario di oncologia medica, destinatario di un provvedimento disciplinare di sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per un determinato arco di tempo e la conseguente sanzione accessoria per lo stesso periodo consistente nell’esonero dall’insegnamento, dalle funzioni accademiche e ad esse collegate, con perdita ad ogni effetto dell’anzianità per tutto il tempo della sua durata nonché impedimento per dieci anni a poter essere nominato rettore di università o direttore di istituto, preside di facoltà o scuola.

Precedentemente all’avvio del procedimento disciplinare, si erano verificati episodi rilevanti nel reparto di Cardiologia dell’Azienda ospedaliero universitaria Policlinico, che avevano portato all’avvio di procedimenti penali, con rinvio a giudizio nei riguardi del personale universitario e sanitario per aver condotto sperimentazioni non autorizzate, per episodi di mancata raccolta del consenso informato presso i pazienti, per la presenza di personale non autorizzato e per l’esistenza di attività di ricerca profit dichiarate invece no profit.

L’azienda, avviava un controllo sull’attività assistenziale e di ricerca clinica effettuata presso le strutture del Policlinico, dandone conoscenza al Rettore. Negli atti del procedimento disciplinare si affermava che il professore, nel secondo giorno di attività ispettiva si era opposto all’accesso alla documentazione, pretendendo una richiesta scritta e motivata relativa all’ispezione. Inoltre, attraverso i suoi collaboratori reiterava la propria opposizione all’accesso al materiale ispettivo. L’ispezione fu interrotta e gli ispettori informarono la direzione aziendale degli eventi accaduti. Il direttore generale dell’Azienda informava il Rettore il quale a sua volta segnalava l’accaduto alla Procura della Repubblica competente. Ci fu un’istruttoria che precedette il procedimento disciplinare e l’avvio dello stesso da parte del Rettore con la contestazione dei seguenti comportamenti disciplinarmente rilevanti: non aver permesso l’accesso ai locali ai funzionari dell’Azienda ospedaliera, pretendendo una richiesta scritta e motivata da parte della Direzione generale ed in particolare motivando il diniego riguardo alla proprietà universitaria; aver tenuto confezioni di farmaco collegate a studi sperimentali non approvati dal Comitato etico provinciale e dall’azienda ospedaliera in un contenitore recante una sigla riferita ad altro studio, invece regolarmente approvato dal Comitato etico e dall’Azienda ospedaliera. Il Collegio di disciplina istituito presso l’Università, avviava la fase procedurale di competenza e svolgeva un’indagine istruttoria preliminare chiedendo all’Azienda di fornire ogni elemento utile a tali fini e di segnalare le azioni e le procedure intraprese sui fatti contestati. A conclusione della fase preliminare del procedimento, il Rettore trasmetteva al Collegio di disciplina la proposta motivata di irrogazione della sanzione e il Collegio convocava per un’audizione dapprima il Rettore, e dopo l’incolpato. Concluso il procedimento, il Collegio di disciplina, all’unanimità, proponeva l’irrogazione della sanzione disciplinare consistente nella sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per alcuni giorni. La proposta del Collegio veniva condivisa dal Consiglio di amministrazione e la sanzione veniva formalmente inflitta, recando anche la seguente sanzione accessoria: <<ai sensi dell’art. 89, comma 2, del citato Regio Decreto, la sanzione predetta importa oltre la perdita degli emolumenti, l’esonero dall’insegnamento, dalle funzioni accademiche e da quelle connesse, e la perdita, ad ogni effetto, dell’anzianità per tutto il tempo della sua durata. Il professore che sia incorso nella punizione medesima non può per dieci anni solari essere nominato rettore di università o direttore d’istituto preside di facoltà o scuola>>.

Seguiva l’impugnazione degli atti da parte del professore al fine di ottenerne l’annullamento. E’ opportuno segnalare alcuni tra i motivi proposti che hanno portato al rigetto del ricorso da parte del T.A.R. secondo cui non poteva accogliersi la contestazione circa la competenza del Rettore ad adottare il provvedimento sanzionatorio, in virtù delle disposizioni normative che gli attribuiscono la relativa competenza, né l’ulteriore contestazione della legittimità della sanzione accessoria altresì irrogata tenuto conto della sua automaticità applicativa; era priva di pregio la doglianza relativa al contenuto inadeguato e all’incompletezza degli addebiti; veniva respinta l’interpretazione del ricorrente in ordine all’applicazione dell’art. 10 l. 240 del 2010, relativamente al rispetto dei termini massimi procedimentali che devono intercorrere tra la contestazione degli addebiti e l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare. Qui il T.A.R. superava tale interpretazione individuando in una nota l’atto di avvio del procedimento e la presenza in essa, di tutti gli elementi utili per contestare le trasgressioni. Il T.A.R rileva inoltre come i termini infraprocedimentali previsti dagli art. 10 commi 2,3 e 4 della l. n. 240 del 1990, dovessero essere considerati come ordinatori, dovendosi ritenere perentori soltanto il termine per la contestazione degli addebiti e quello per la conclusione del procedimento, che nel caso di specie venivano rispettati. Infine, non poteva condividersi, la tesi del ricorrente in base alla quale vi sarebbe stato un obbligo, non osservato, di sospendere la procedura disciplinare in pendenza del giudizio penale, poiché tale obbligo non sussiste fin quando, come avvenuto nel caso di specie, non sia stato attivato giuridicamente il rinvio a giudizio. Il T.A.R. respingeva il ricorso.

L’interessato, con appello riproponeva gli stessi motivi dedotti in primo grado, racchiudendoli in numero minore per l’appello ed avversando tutte le ricostruzioni effettuate dal primo giudice, al fine di sostenere l’illegittimità dell’intera procedura disciplinare svolta sia dall’Azienda ospedaliera che dall’Università nei suoi confronti, quanto il provvedimento sanzionatorio conclusivo. Il Consiglio di Stato ha ritenuto l’appello infondato.

Con riferimento al motivo di appello con il quale si contestava il ragionamento del T.A.R. in ordine sia alla qualificazione in termini di automaticità della sanzione accessoria dell’interdizione per dieci anni ad assumere incarichi direttivi, collegata all’irrogazione della sanzione disciplinare principale della sospensione dall’ufficio per effetto dell’art. 89, comma secondo, R.D. 1592 del 1933 e il successivo motivo in cui si lamenta l’incompetenza del Rettore ad inserirla nel decreto sanzionatorio benché il collegio di disciplina non l’avesse esplicitata, il Consiglio di Stato ha ritenuto il ragionamento del T.A.R. privo di errori. Sul punto ha richiamato la disciplina delle sanzioni disciplinari contenuta nel R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, relativa ai docenti universitari e specificamente l’art. 87 secondo cui<<Ai professori di ruolo possono essere inflitte, secondo la gravità delle mancanze, le seguenti sanzioni disciplinari: 1° la censura; 2° la sospensione dall’ufficio e dallo stipendio fino ad un anno; 3° la revocazione; 4° la destituzione senza perdita del diritto a pensione o assegni, 5° la destituzione con perdita di diritto a pensione o assegni>>. Richiama, inoltre, l’art. 88 che dispone <<La censura è una dichiarazione di biasimo per mancanze ai doveri d’ufficio o per irregolare condotta, che non costituiscono grave insubordinazione e che non siano tali da ledere la dignità e l’onore del professore>>. Ancora l’art. 89, primo comma, secondo cui<<Le punizioni, di cui ai numeri 2,3,4 e 5 dell’art. 87, si applicano secondo i casi e le circostanze, per le seguenti mancanze: a) grave insubordinazione; b) abituale mancanza ai doveri d’ufficio; c) abituale irregolarità di condotta; d) atti in genere, che comunque ledano la dignità e l’onore del professore>>Ed infine il secondo comma dell’art. 89, secondo cui<<La punizione di cui al n. 2 importa, oltre che la perdita degli emolumenti, l’esonero dall’insegnamento, dalle funzioni accademiche e da quelle ad esse connesse, e la perdita ad ogni effetto, dell’anzianità per tutto il tempo della sua durata. Il professore che sia incorso nella punizione medesima non può per 10 anni solari essere nominato rettore di Università o direttore di Istituzione universitaria>>.

In ordine alla sanzione accessoria il Consiglio di Stato ha precisato come<<…Sull’Amministrazione non gravano ulteriori obblighi né istruttori né di valutazione di congruità ai fini dell’applicazione della mistura accessoria, una volta appurata la sussistenza dei presupposti e deciso di infliggere la sanzione della sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per il periodo ritenuto congruo e proporzionato rispetto alle trasgressioni accertate e commesse>>.

Secondo il Consiglio di Stato è infondata anche la censura relativa al motivo di appello, secondo cui il T.A.R. avrebbe dovuto evidenziare l’illegittimità dell’intero procedimento disciplinare, in quanto l’Amministrazione non avrebbe messo l’incolpato nella condizione di difendersi adeguatamente dalle contestazioni, non essendogli state rappresentate le possibili conseguenze dell’avvio del procedimento disciplinare nei suoi riguardi e non avendo fatto accenno, nell’atto di contestazione degli addebiti, alla misura accessoria inflitta. Sul punto il Consiglio ha precisato che<<…Posto che l’inflizione della sanzione interdittiva sfugge alla volontà degli organi sui quali è ripartita la competenza a svolgere il procedimento disciplinare, ai sensi dell’art. 10 l. 30 dicembre 2010 n. 240, stante la sua irrogazione automatica, non emergono in nessuna disposizione normativa elementi idonei al fine di rappresentare un obbligo in capo all’amministrazione di inserire nella contestazione degli addebiti anche tale elemento procedurale, essendo eventuale ed incerto quanto la sicura colpevolezza del (l’incolpato) trasgressore nonché l’entità della sanzione che (eventualmente ed effettivamente) verrà inflitta. D’altronde l’art. 10, comma 3, l. 240/2010 richiama l’attenzione sulla necessità che gli atti principali del procedimento disciplinare contengano elementi chiarificatori e divulgativi, ai fini di poter compiutamente esercitare il diritto di difesa da parte dell’incolpato, “in relazione alla rilevanza dei fatti sul piano disciplinare sia in relazione al tipo di sanzione da irrogare”, ma nulla disponendo in merito alle sanzioni accessorie che, ex lege, potrebbero discendere dalla irrogazione di una determinata sanzione disciplinare>>.

Altro motivo d’appello riguardava l’asserita illegittimità del procedimento disciplinare nei riguardi dell’appellante, con specifico riferimento all’atto di contestazione degli addebiti. Qui il Consiglio di Stato richiama innanzitutto l’art. 10, comma 2, l. 240 del 2010 secondo cui:<<L’avvio del procedimento disciplinare spetta al Rettore che, per ogni fatto che possa dar luogo all’irrogazione di una sanzione più grave della censura tra quelle previste dall’articolo 87 del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore di cui al regio decreto 31 agosto 1933 n. 1592, entro trenta giorni dal momento della conoscenza dei fatti, trasmette gli atti al collegio di disciplina formulando motivata proposta >>1.

Ulteriore motivo di appello, che rileva in ordine al tema trattato e ritenuto infondato dal Consiglio di Stato è quello riguardante l’irragionevolezza della scelta di non sospendere il procedimento disciplinare in virtù del fatto che l’azione penale non fosse stata esercitata. Sul punto il Consiglio di Stato ha ritenuto non condivisibile la prevalenza assegnata dall’appellante al principio della c.d. pregiudizialità penale rispetto all’avvio e alla conclusione del procedimento disciplinare. Nello specifico, ha rilevato che dopo l’entrata in vigore dell’art. 55-ter d- lgs. 30 marzo 2001 n. 165, la Corte di Cassazione, con riferimento al rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ha affermato che<<venuta meno la c.d. pregiudiziale penale e regolato il possibile conflitto tra gli esiti dei procedimenti giusta il D. Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, l’amministrazione è libera di valutare autonomamente gli atti del procedimento penale, ai fini della contestazione, senza necessità di una ulteriore ed autonoma istruttoria, e di avvalersi dei medesimi atti, in sede d’impugnativa giudiziale, per dimostrare la fondatezza degli addebiti>>2.

Secondo Il Consiglio di Stato<<può quindi affermarsi, in linea generale, come il legislatore ritenga oramai superato il principio della c.d. pregiudizialità penale rispetto al procedimento disciplinare, lasciando libera l’amministrazione di valutare se sussistano o meno ragioni che inducano a considerare come necessario il non ovvio ovvero la sospensione del procedimento disciplinare a carico del dipendente, laddove sui fatti di cui all’incolpazione sia in corso un procedimento all’Autorità giudiziaria>>. Inoltre, la l. n. 240 del 2010, con riferimento alle disposizioni applicabili in ambito sanitario, non detta alcuna disciplina nell’ipotesi di coesistenza tra procedimento penale e procedimento disciplinare. Pertanto, è stato condiviso e confermato il ragionamento del T.A.R. sulla possibilità di avviare il procedimento disciplinare.

Infine, merita accenno il motivo di appello con cui si contestava la congruità della sanzione, ritenendola sproporzionata rispetto alla tenuità dei fatti contestati. Sulla congruità della sanzione il Consiglio di Stato ha osservato che <<La determinazione relativa all’entità della sanzione disciplinare costituisce manifestazione di una tipica valutazione discrezionale della pubblica amministrazione datrice di lavoro, insindacabile di per sé dal giudice amministrativo-tranne nei casi in cui essa appaia manifestamente anomala o sproporzionata o particolarmente severa in quanto determinata nel massimo consentito. La giurisprudenza, a proposito della congruità della motivazione, ha chiarito che il giudice, non potendo sostituire la propria valutazione a quella della p.a., può verificare che l’atto sia sorretto da motivazione adeguata e basata su fatti manifestamente gravi e tali da indurla a considerare i fatti commessi con la prosecuzione del rapporto di pubblico impiego, che il provvedimento punitivo è illegittimo se manca una sufficiente connessione logico giuridica tra le responsabilità effettivamente accertate, la motivazione dell’atto e la sanzione adottata, che, quando le mancanze disciplinari possano dar luogo all’irrogazione di diverse sanzioni, la pubblica amministrazione datrice di lavoro deve specificare adeguatamente le ragioni che inducono ad irrogarne una, piuttosto che l’altra, previo esame di tutti gli elementi, che quindi, l’ordinamento impone che vi sia adeguatezza tra l’illecito e l’irroganda sanzione>>3.

La decisione del Supremo consesso della giurisdizione amministrativa si rifà al principio, consolidato nella propria giurisprudenza, secondo cui <<La valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice di legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento4 , statuendo che le norme relative al procedimento disciplinare sono necessariamente comprensive di diverse ipotesi e, pertanto, spetta all’amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità (l’amministrazione dispone di ampio potere discrezionale nell’apprezzare autonomamente le varie ipotesi disciplinari, con una valutazione insindacabile nel merito da parte del giudice amministrativo)>>5.

In altra fattispecie riguardante l’esposizione disciplinare dei docenti medici, Consiglio di Stato sez. VI, con sentenza del 20 novembre 2013 n. 5504, ha affrontato la vicenda che riguardava un professore associato confermato di Medicina e Chirurgia, convenzionato con l’Azienda ospedaliera, strutturato come Dirigente medico a rapporto di lavoro esclusivo con l’incarico di Direttore della struttura complessa universitaria di Clinica ostetricia e ginecologia, che chiedeva l’annullamento del provvedimento emesso dal Direttore generale dell’Azienda ospedaliera con cui gli veniva irrogata, nella sua qualità di professore universitario strutturato nell’attività assistenziale dell’azienda, la sanzione della sospensione dal convenzionamento e di conseguenza da tutti i benefici economici per aver detenuto una quota societaria in una s.r.l. e rivestito la carica di presidente di Consiglio di amministrazione e di amministratore delegato. Il Tribunale amministrativo adito, accoglieva il ricorso annullando il provvedimento sanzionatorio impugnato. Con appello si chiedeva l’annullamento della sentenza di primo grado eccependo preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario quale giudice del lavoro e in subordine l’accoglimento di taluni motivi. Il docente proponeva appello incidentale e con ricorso presentato al T.A.R. chiedeva l’annullamento del decreto del Rettore dell’Università recante l’irrogazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per due mesi (per gli stessi fatti oggetto della sanzione irrogata dall’Azienda ospedaliera), nonché di ogni altro atto e provvedimento presupposto comunque collegato a quello sopraindicato e tutti gli atti inerenti al procedimento disciplinare ed ancora il provvedimento con cui venivano date istruzioni sulla sostituzione del ricorrente nello svolgimento di alcune funzioni.

Il Consiglio di Stato, tra i diversi punti analizzati, rilevava come nella sentenza di primo grado, si affermava che l’Azienda ospedaliera fosse dotata di autonomo potere disciplinare rispetto al rapporto instaurato con essa dai professori universitari, per cui, pur radicando nella giurisdizione amministrativa la prevalenza del rapporto lavorativo con l’Università, questo rapporto non assorbe quello con l’Azienda: possono perciò incardinarsi due distinti procedimenti disciplinari se la condotta del ricorrente risultata plurioffensiva rispetto ai due ordinamenti. Sulla questione il Consiglio di Stato ha ritenuto che:<<Le attività dei docenti universitari medici, di assistenza ospedaliera e didattico scientifica, pur compenetrate per “la natura necessariamente teoricopratica dell’insegnamento medico”6, devono essere considerate distintamente per il profilo delle organizzazioni in cui si svolgono, le università da un lato e le strutture del Servizio sanitario nazionale dall’altro, essendo il docente dipendente delle prime e, al contempo, “strutturato” presso le seconde in relazione alle prestazioni che rende in entrambe, prevedendo la normativa che “fermo il loro stato giuridico” ad essi si applicano “per quanto attiene all’esercizio dell’attività assistenziale, al rapporto con le aziende e a quello con il direttore generale, le norme stabilite per il personale del Servizio sanitario nazionale” e le norme sulla dirigenza medica (art. 5 commi 2 e 3, del d. lgs. 21 dicembre 1999 n. 517 recante “Disciplina dei rapporti fra Servizio sanitario nazionale ed università”.) Di conseguenza è legittima l’ipotesi dell’attivazione rispetto allo stesso docente di due procedimenti disciplinari nell’ambito di due ordinamenti se il suo comportamento sia ritenuto lesivo di norme proprie di ciascuno di essi, essendo diversi i valori tutelati da tali norme riguardo allo status e ai doveri del docente universitario in quanto operi nell’insegnamento universitario ed in quanto svolga attività assistenziale nelle strutture del Servizio sanitario nazionale>>.

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Note

1 Sul punto, la motivazione richiama Corte di Cassazione, Sez, II, 23 gennaio 2014 n. 1437 che<<seppur riferita ad un contenzioso in merito ad una sanzione disciplinare inflitta ad un notaio, esprime un principio di diritto generale in materia di procedimento disciplinare e condiviso dalla giurisprudenza>>secondo cui<<La natura propria dell’atto di contestazione degli addebiti, per il rilievo che esso assume ai fini della legittimità del procedimento disciplinare quale momento necessario perché l’incolpato possa conoscere puntualmente le trasgressioni che gli vengono contestate e le sanzioni che vengono poste all’ente, impone che esso non possa essere adottato fino a quando il quadro della vicenda che raccoglie l’illecito disciplinare sia formato e completo, dovendosi a riguardo rilevare che tutti gli altri termini stabiliti dalle norme di settore, nella specie l’art. 10, comma 3, l. 240/2010, con riferimento alla fase (istruttoria) precedente al momento di avvio del procedimento disciplinare, coincidente con la comunicazione della contestazione degli addebiti, debbono considerarsi quali termini ordinatori, tenuto conto che il legislatore espressamente non li qualifica come perentori (né utilizza formule, seppur ellittiche, per rappresentare fermamente tale volontà normativa) e che la fase pre-procedimentale non può giuridicamente equipararsi a quella realmente procedimentale>>. Ancora viene richiamata un’altra sentenza della Corte di Cassazione sez. II, del 14 dicembre 2018 n. 32491 secondo cui<<Ai fini della decorrenza del termine perentorio per la conclusione del procedimento disciplinare dell’acquisizione della notizia dell’infrazione ex art. 55-bis, quarto comma, del d. lgs. n. 165 del 2001 assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi “una notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio del procedimento disciplinare>>.

2 cfr. Cass. civ., sez. lav., 1° marzo 2017, n. 5284 e 26 ottobre 2017 n. 25485.

3 cfr., per tutte, cons. Stato Sez., 28 gennaio 2002, n. 449.

4 in tal senso Consiglio di Stato, VI, 31 maggio 2007 n. 2830, e 16 aprile 2015 n. 1968.

5 Cfr. Cons. Stato, VI, 22 marzo 2007, n, 1350, e sez. VI, n. 4996 del 2012.

6 Definizione ricavata da Corte Costituzionale, sentenza n. 71 del 2001.

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